“31 anni e una pandemia”. Capitolo 20: Valle

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Giuseppe Turchi

31 anni e una pandemia

 

Parte II
“Liberato”

20. Valle

In località Case Pennetta (Ca’ de Pnètta in dialetto) ci sono due case, ma proprio due. Sono poste sul cucuzzolo di una collinetta da cui si vedono bene sia la valle del Taro che quella del Mozzola. Cassio, Orsaro, Molinatico, Barigazzo: i monti più noti si distinguono tutti.

Qui gli occhi capiscono bene il concetto di “polmone verde”. La chioma dei boschi è fittissima e le costruzioni sono rare. Sopra, il cielo del mattino offre una tinta azzurro puro. Vorrei tanto scattare un’istantanea e poter vivere sempre al suo interno.

Una delle due case è quella che mio nonno ha costruito assieme a suo padre e i suoi fratelli negli anni Quaranta. È un grosso edificio in sasso in cui abitavano più famiglie. Io sto cominciando a viverla un po’ adesso, grazie alla ristrutturazione che ha fatto mio zio Alfio. La sala da pranzo è un piccolo capolavoro. Ci sono un tavolo lungo, da quindici persone almeno, un caminetto e mobili in legno dell’Ottocento che custodiscono le grappe distillate direttamente dallo zio. Il tetto è sorretto da un massiccio architrave in legno massello che attira sempre lo sguardo dei visitatori. Un gran bel luogo di ritrovo, insomma.

Poco prima, in località Barino, c’è un’altra casa, quella che mio nonno aveva iniziato a costruire solo per la sua famiglia e dove io ho vissuto sino ai sei anni. Gli appartamenti sono abbastanza grandi ma il volume maggiore lo occupano il garage dei trattori, il granaio e la stalla, quest’ultima abitata dai conigli di mio padre. Sono bestiole adorabili.

Quando stamattina sono arrivato ho avvertito subito un odore che mi ha riportato indietro nel tempo. Il vecchio pero è sempre lì da che io ho memoria. Al suolo ci sono i suoi frutti più maturi che emanano un sentore dolciastro. Non ne conosco la qualità, né l’ho mai vista nei supermercati. Mi rimanda a quando le mie cugine venivano a trovare i parenti e spezzavano la solitudine del vivere in un luogo isolato. Ricordo che con Barbara avevo provato per la prima volta il bob sulla neve. Con Claudia facevamo delle pappette di terra nelle scatolette vuote della Simmenthal. Ci piaceva impastare le cose più improponibili e poi proporle alle lucertole che, ovviamente, fuggivano a gambe levate.

Oggi ho lasciato la macchina a Barino e ne ho approfittato per fare una piccola passeggiata sulla ghiaia fino a Case Pennetta. Alfio ha allestito una piccola mostra di oggetti della civiltà contadina e del suo lavoro da ferroviere. Per l’occasione ha restaurato un carro donatogli da un amico, dopodiché vi ha appeso di tutto, dalle falci alle punte dei picconi, un po’ come fece il maestro Ettore Guatelli, il cui casale è diventato l’omonimo museo sito in Ozzano Taro.

La passione per il lavoro manuale di mio zio va di pari passo con la sua abilità. Muratore, agricoltore, allevatore, restauratore, cameriere, norcino, cuoco: lui sa fare di tutto. È impressionante. Ogni tanto mi guardo e sembra quasi che tutto il mio studio sia stata un’involuzione rispetto alla sua generazione. Cosa so fare, io? So studiare alcune materie umanistiche, scrivere e pitturare le miniature dei giochi da tavolo. Fine. Io mi sono impegnato in tante cose che non sono così tangibili. Valgono lo stesso? Ha senso fare un paragone del genere? Non lo so.

In men che non si dica sono arrivate le sette di sera e io sono seduto sotto la pergola circondato dall’edera rampicante e da piante di vite. In lontananza vedo Alfio e mio padre intenti a intrattenere gli ultimi visitatori. Proprio come accade al Museo Guatelli, ogni oggetto racconta una storia e ogni storia è testimonianza di vita. Sotto a un pinetto mio zio ha riprodotto una trappola per tordi fatta con dei sassi piani e quattro bastoncini in bilico. Le bacche di ginepro, mi ha spiegato, attiravano gli uccelli che, calpestando i bastoncini, finivano intrappolati tra i sassi. Quello era uno dei pochi modi con cui i giovani potevano racimolare un po’ di denaro e comprarsi così qualche oggetto di necessità. L’esigenza pressante aguzzava l’ingegno e la manualità.

È stata una bella giornata. Un’amica ci ha fatto la gentilezza di scattare tante foto con cui comporremo un libro illustrato. Io mi sono dedicato alla promozione dell’esposizione sui social. Tutto il tempo speso a tribolare con Instagram e Facebook, in fondo, mi è tornato utile. Forse avremo persino un servizio sulla TV locale.

Saluto tutti – un po’ triste perché le regole m’impongono di non abbracciare la mia amorevole zia – e riprendo la strada ghiaiata per raggiungere la macchina.

A metà percorso mi fermo un attimo a guardare la catasta di legna sulla sinistra. Anni fa avevo assistito al taglio col bindello. Ero rimasto stupito da come il pistone spaccalegna, apparentemente lento, tirasse in realtà dei colpi incredibili che sventravano i ceppi più grossi. Tutt’attorno il terreno era invaso da trucioli chiari. Poco più sotto c’era invece il ricovero delle capre, adesso dismesso. Pare che da piccolo avessi avuto una capretta preferita e che piansi a dirotto quando dovettero venderla. Ho immagini vaghe, una casa gialla, un recinto, un biberon, ma nulla di più.

Giunto alla macchina sento ancora l’odore delle pere e rivolgo un ultimo sguardo alla casa della mia prima infanzia. C’è parecchio spazio tra il cancello e le mura, ideale per fare qualche rimpatriata. Ci avevo provato, tanti anni fa, poi ho perso lo stimolo per colpa di brutte esperienze. Ora i tempi sembrano di nuovo buoni per fare una bella mangiata in compagnia. Forse l’anno prossimo, quando saremo usciti dall’emergenza.

Che strada posso fare per tornare a Solignano? C’è quella ripida e veloce che passa per case Gardini, oppure potrei fare un giro panoramico e arrivare dall’altra parte della Val Mozzola, passando per Mormorola. In quel caso arriverei non prima delle otto, e sono stanco. Tergiverso un po’ finché non mi convinco che non m’importa: scelgo la strada panoramica.

Con i finestrini abbassati e la radio spenta mi dirigo prima nella frazione di Case Bottioni. Mi accompagna la calata del sole sopra quel grosso trapezio che è il monte Barigazzo. La luce del tramonto si conferma essere la più magica di tutte. Chissà perché l’associo all’affetto di una nonna. È come se avesse un calore che ti protegge.

Per un attimo mi ritrovo in totale pace col mondo. È la stessa sensazione di quando ero uscito per la prima volta nei boschi. Solo che questa volta non mi ha parlato nessuno.

«Perché ti ho ascoltato.»

È la voce della Valle!

«Da sempre accolgo i tuoi pensieri, ma solo da poco mi hai concesso anche il tuo cuore.»

 

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