Per una scuola dei processi

Di Federico Dazzi

Giuseppe Turchi, nel suo libro in corso di pubblicazione, coglie, sotto la trama del racconto personale, molti nodi concettuali intorno allo stato dell’insegnamento scolastico nell’attuale panorama. Il libro, “Insegnare giovane. Perché ho smesso di studiare per il voto”, è preordinabile qui.

Il campo culturale, che comprende istituzioni come la scuola, la letteratura, l’editoria e tutto ciò che ruota intorno a questi attori, ha una natura piuttosto “viva”: ogni mutamento del campo stesso è provocato da spostamenti delle direzioni delle varie discipline al suo interno, le quali ad ogni movimento provocano scarti di gerarchia tra loro stesse, ridisegnando ogni volta in questo modo la fisionomia della struttura. Il campo culturale ha, insomma, la consistenza dell’acqua. Perciò, non è possibile indagare le problematiche della scuola se non si comprendono allo stesso tempo le variazioni nel campo della letteratura, o dell’editoria. Come nelle trasformazioni della materia nessun atomo scompare mai, ma subisce al massimo degli spostamenti nello spazio – siamo tutti fatti della stessa sostanza dei sogni, si, ma anche della stessa sostanza di cui è fatto un filo d’erba, direbbe un poeta da noi purtroppo un po’ dimenticato, Rocco Scotellaro – questi atomi, quindi, sono l’immagine delle declinazioni del campo culturale. Per indagare le problematiche del mondo della scuola, ad esempio, bisogna guardare anche a cosa sta succedendo nella letteratura e nel campo culturale in genere. Quando Turchi parla del complesso rapporto tra la valutazione e la consapevolezza di senso negli studenti, coglie un problema che affligge il campo culturale da almeno cinquant’anni. Tutti, fino a che non ne abbiamo preso coscienza, abbiamo studiato per il voto. La colpa è nostra o della forma del sistema scolastico, che condivide gli stessi problemi con altre discipline del campo culturale?

Comincerò quindi a cercare le cause negli anni Settanta circa, quando Gian Carlo Ferretti[1] lamentava nella critica letteraria italiana una mancata presa di coscienza riguardo ai processi piuttosto che ai prodotti. La critica, in sostanza, “non ha nessuna vera consapevolezza dell’orizzonte reale in cui si muove; imposta le sue riflessioni e polemiche intorno a questo o quel romanzo, affrontandolo come un prodotto in sé compiuto e concluso […] e senza porsi perciò il problema generale della politica editoriale in cui il nuovo fenomeno è inserito, nella logica di mercato di cui il romanzo e lo scrittore finiscono per partecipare”.[2] A stesse conclusioni arriverà poi, successivamente, anche Vittorio Spinazzola, e il fenomeno descritto ha valore universale nell’intero funzionamento del campo culturale. Lo si può dire qui candidamente, cinquant’anni non hanno risolto il problema: esso, anzi, ha infettato vaste aree del nostro modo di intendere la cultura. Perciò l’incapacità della critica ad interessarsi ai processi più che ai prodotti è lo specchio della uguale incapacità del sistema scolastico. Perché, per esempio, nell’insegnamento della letteratura, perfino nei licei non si tratta la materia con un’attenzione rivolta alle dinamiche editoriali che pure danno forma alla letteratura stessa? Noi, in fondo, conosciamo la letteratura tramite le produzioni editoriali, non altrimenti. Perché poi si fatica così tanto a discostarsi dal taglio diacronico dell’insegnamento, considerato che la prospettiva della sincronia permette di ampliare la veduta su determinati spazi critici? Perché non proporre, come fa Turchi, una “connessione coerente” delle materie e delle loro finalità?

Io pongo a paradigma della lentezza dell’insegnamento scolastico lo studio della letteratura, meramente per interesse personale: sono dell’idea che al giorno d’oggi questa materia non sia insegnabile a prescindere dallo studio sincronico dell’editoria e della filologia, chiaramente trattate nei modi più consoni per le fasce di età dei ragazzi. Gli studi accademici, in questo campo, stanno raggiungendo risultati sorprendenti proprio perché queste discipline hanno messo da parte le discordie ormai ancestrali e hanno iniziato a dialogare, proponendo una dialettica che almeno dal 2012, con la pubblicazione di Le diverse pagine di Alberto Cadioli e dal 2016 con gli annuari di Prassi ecdotiche della modernità letteraria, sta portando risultati veramente notevoli. La forza di questa metodologia, a mio avviso, risiede in un’attenzione forte verso i processi delle discipline, e non solamente ai prodotti di esse. Perché quindi non tentare di portare questo metodo di insegnamento – opportunamente calibrato – anche, almeno, nella scuola secondaria superiore? La questione del voto che evidenzia Turchi è in stretta connessione con questi ragionamenti. Ora, come ho accennato in un precedente articolo, nella società attuale in cui tutto muta velocemente e convulsamente, uno studio dei prodotti non ha senso: si rischia di arrivare perennemente in ritardo. Ha invece molto più senso, come proposto, lo studio dei processi che esistono tra i prodotti, che però viene raramente attuato: per questo esiste uno scarto enorme tra valutazione e consapevolezza di senso nel sistema scolastico, proprio perché non si dà modo ai ragazzi di percepire che ogni parte del campo culturale ha una funzione che è strettamente collegata alle altre, e che quindi studiare la matematica ha senso se si vuole fare l’astronauta, come studiare la forma materiale del libro rende più commestibile e reale la letteratura. Esistono i più virtuosi, che già dai primi anni di scuola studiano per il piacere di farlo, ma quanti sono? E se arrivano a queste conclusioni è per via di una grande e precoce intelligenza individuale, non certo per un sistema che spinge a pensare in questa maniera. La scuola, pur non rendendosene forse nemmeno conto, è ancora ferma all’attenzione ai prodotti, e propone un modo di concepire l’insegnamento e l’apprendimento che riflette naturalmente le sue posizioni. Il voto – nella maggior parte dei casi, si intende – si pone nel rapporto tra l’uomo e la sua produzione, e altro non è che una forma di giudizio, appunto, su un prodotto. Arrivare a concepire un’attenzione a quella che chiamo “Scuola dei processi” porterebbe a porre maggiore attenzione al significato stesso dell’imparare e dell’insegnare, oltre che a svalutare la mera assegnazione delle votazioni. Turchi fa un esempio:

Il bambino impara a leggere, scrivere e far di conto prima di tutto perché deve. Perché è stato inserito nella scuola dell’obbligo. Egli non ha la minima idea di cosa potrà fare con quelle abilità, né è in grado di comprendere la portata culturale del diritto all’istruzione. Può sognare di fare l’astronauta, ma di certo non immagina che sapere l’inglese e la matematica sono precondizioni fondamentali per raggiungere l’obbiettivo. Lui si vede già sulla luna, si pre-configura delle esperienze fantastiche, ignorando tutto il processo che sta nel mezzo. L’unica cosa che sperimenta con costanza sono lezioni, compiti, verifiche scritte e interrogazioni orali.

Non vorrei che ciò che chiamo “Scuola dei processi” venga confusa con la “Scuola delle competenze” così come delineata dai decreti ministeriali del 2010: quest’ultima conserva malattie del vecchio sistema, come ho delineato sommariamente, e risulta piuttosto fumosa nelle sue direttive; la mia proposta vuole essere solamente uno sprono a concepire in maniera diversa, e più giusta – a mio parere – il sistema scolastico nel suo complesso, a partire da un ripensamento di varie istituzioni come la critica letteraria in primis. Il prodotto, mascherato nella concezione scolastica nella forma del voto e nell’insegnamento a “compartimenti stagni”, non è più un possibile viatico per comprendere e valutare il presente. Il tempo è maturo, considerando che il sistema scolastico è in profondo mutamento anche sotto il profilo dell’autorità con il ridisegnamento del concetto di prescrittività del Miur e delle libertà dei docenti a seguito della riforma Gelmini. Non cogliere quindi questa opportunità, se non solamente lo stimolo, sarebbe l’ennesima conferma che la cultura, in fondo, si accontenta.

  1. Alludo qui al suo Il mercato delle lettere, pubblicato nel 1979 da Einaudi e poi nel 1994 dal Saggiatore. Mi rifaccio a quest’ultima edizione per le citazioni seguenti.
  2. Ivi p. 24.

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