La fatica di leggere i classici: un modello di lettura

Di Federico Dazzi

Studente di Giornalismo e Cultura editoriale a Parma.

 

Perché i testi classici sono ostici? Cosa fa sì che al solo sentirli nominare rivivono in noi paurose scene dei tempi in cui fummo studenti? La ragione, forse, è nella loro stessa natura.

Proviamo a cercare le radici di questa difficoltà che si incontra: assumiamo innanzitutto che il classico è un testo che non siamo i primi a leggere. Può sembrare un’affermazione scontata, ma non è così. I classici, infatti:

non si leggono mai da soli: qualcun altro prima di noi li ha già letti, commentati, valutati, inseriti in un canone. […] La lettura di un classico è sempre un’esperienza individuale, ma né l’opera né chi legge sono libere soggettività senza storia e senza vincoli; l’incontro tra le due parti avviene sempre in obbedienza o in violazione di certi codici – mai senza codici.[1]

Qualcun altro, appunto, li ha già assimilati e discussi: noi li leggiamo con un surplus di senso che è dato dagli antichi strati di letture che sono state fatte nel passato. In un’altra definizione Calvino continua questo discorso:

I classici sono quei libri che ci arrivano portando su di sé la traccia delle letture che hanno preceduto la nostra e dietro di sé la traccia che hanno lasciato nella cultura o nelle culture che hanno attraversato (o più semplicemente nel linguaggio o nel costume).[2]

E di qui Federico Bertoni:

Il Chisciotte, come classico, è un libro che non si può fare a meno di ri-leggere: vi rileggiamo – anche ad un primo contatto – una parte di noi stessi, della nostra cultura, di quella memoria intertestuale che rende intelligibile e trasmissibile il sistema della letteratura: la catena in cui siamo inseriti si chiama appunto tradizione.[3]

Appunto il destino di ogni classico è quello di essere trádito attraverso le generazioni, destino non lineare che non è perciò esente da scontri, anzi: si potrebbe sostenere con Harold Bloom[4] una natura esclusivamente agonistica della vita dei classici, e quindi del canone letterario.

Leggere un classico vuol dire quindi confrontarsi continuamente con i nostri antenati e con la nostra storia di uomini, poiché la nostra lettura è solamente l’ultima lettura che viene data a quel testo, e il confronto si gioca tutto sulla capacità del lettore di esserne consapevole. Leggere un classico in ultima istanza dovrebbe essere equivalente a leggere il classico, in quanto non si deve pensare a questo tipo di lettura come ad una lettura esperienziale – quella di una qualsiasi altra tipologia di testo -, bensì bisogna considerare questa lettura come una modalità di lettura, o, meglio, un modello di lettura. Del resto T.S.Eliot è dell’idea che leggere un grande autore del passato comporti necessariamente una temporanea rinuncia al proprio presente e alla personalità di lettore, per potere godere di qualcosa di prezioso in cambio di questo autosacrificio.[5] È quindi tramite una rinuncia all’ hic et nunc che si può aspirare ad assimilare le parole di un classico, un procedimento che appunto vuole essere iper-storico, proprio perché modellizzante. O meglio: questa rinuncia al proprio presente non sparisce, e neppure si “mette in pausa”, bensì il presente viene veicolato all’interno del passato di cui si fa portavoce il testo per permettere un dialogo. Inevitabilmente, si capisce, si finisce per trovarsi a contatto con un passato che è reso presente attraverso di noi, attraverso la lettura, badando bene che ciò non comporta un’attualizzazione del testo, processo sì possibile ma non inevitabile e non esente da pericoli, ma una sua storicizzazione: e storicizzando, comprendiamo. Non si creda per questo motivo che sia possibile approcciarsi ai classici evitando allo stesso momento di approcciarsi a sé stessi e alla società contemporanea: questo spiega in modo evidente, per l’ampiezza di tale portata, la difficoltà di relazionarsi con essi e la diffidenza che spesso se ne prova. Leggendo i classici si attraversano epoche, e si può perciò capire gli altri comprendendo nello stesso momento sé stessi. Si può sostenere in definitiva che il leggere i classici è un modello di lettura sociale, in quanto è un introiettare la tradizione nella propria persona: alla fine dei conti leggere i classici vuol dire leggersi.

Interessante sulla nozione di classico è anche l’interpretazione che ne dà Corrado Bologna nel recentissimo volume dei Meridiani Mondadori dedicato ad Alberto Asor Rosa, indicando una funzione mitica del classico, quella in sostanza di dare ordine al caos, trasformare il caos in cosmos: riprende per altro un’accezione simile data dallo stesso Asor Rosa in un suo saggio, dove il grande classico è inteso come:

un filo che l’uomo dispone nello svolgimento caotico del processo storico, è il filo di Arianna, mediante il quale la frequentazione del labirinto diventa meno rischiosa e più agevole, e umanamente più cordiale e apprezzabile.[6]

Insomma al classico qui viene data una funzione primitiva, letteralmente ab-origena, quasi apotropaica: in cambio di un sacrificio in termini di opere che saranno destinate all’oblìo si riceve una tregua dal caos e qualche baluardo in difesa dell’identità. Da sempre il processo di canonizzazione letteraria è infatti un processo di inclusioni ed esclusioni, mai uno statuto granitico. Da notare, nell’accezione asorrosiana, che la stessa concezione di classico è frutto dell’invenzione dell’uomo, con lo scopo di tranquillizzare i lettori: in realtà i classici incutono paura e tendono a generare instabilità porgendo una serie di domande non eludibili. È per questo che vengono o evitati o sistemati in nicchie rassicuranti – correnti poetiche e interpretazioni tendenziose – alle quali i grammatici e i critici hanno lavorato per secoli.[7] Infatti il classico nasce come originale, ma nello stesso momento in cui diventa classico ne viene esautorato, venendo di fatto stretto tra norme e canoni che ne limitano l’irregolarità[8]: anche per questo la sua definizione pone da secoli problemi interpretativi, in quanto il classico fluttua continuamente tra la sfera dell’esistenza e quella della non-esistenza, lasciando percepire il proprio potenziale solamente a chi riesca a voltolare la zolla fino alla radice. Esiste quindi una natura celata dei classici, che è però la vera natura, a cui il lettore può arrivare solamente controcorrente, operando una lettura in qualche modo ribelle: solo in questo modo si recupera il turbamento che in origine l’opera possedeva.[9] In ultima analisi, sintetizzando tutte le riflessioni a cui siamo giunti, la lettura dei classici si configura come un modello di lettura sociale rivoluzionario, intendendo letteralmente quest’ultimo termine, ad indicare il movimento circolare del “voltolare la zolla” che svela il vero potenziale del testo.

Facciamo una rivoluzione anche intorno a quest’articolo per arrivare al nocciolo: perché i classici sono ostici? Perché richiedono sacrificio, quell’autosacrificio che permette lo scambio storico di cui il testo così unicamente si nutre e di cui siamo protagonisti, che comporta coscienza del nostro presente così come del passato. Inoltre, il raggiungimento della vera natura del testo – quella che abbiamo chiamato originalità o irregolarità – richiede la capacità di spogliare strati e strati di sedimentazioni storiche e critiche: in questo senso bisogna leggere i classici dimenticandoci allo stesso tempo che siano tali. È chiaramente un paradosso, e questa è la vita del classico: sempre così marmoreo ma così sfuggente, così ostico ma così vitale.

  1. Editoriale, in Inchiesta letteratura, 110 (ottobre-dicembre 1995), Edizioni Dedalo, p.3.
  2. Italo Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, 2017, p. 8.
  3. Federico Bertoni, Classici e sistema letterario: il piacere della rilettura, in Inchiesta letteratura, cit., p. 5.
  4. Le tesi circa la genesi di un canone come scontro tra personalità sono espresse in Harold Bloom, L’angoscia dell’influenza. Una teoria della poesia, Abscondita, 2014, 1° ed. The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry, Oxford University Press, 1973.
  5. Thomas Stearns Eliot, Tradizione e talento individuale, in Opere 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, 1992, in particolare p. 397; cfr. anche Thomas Stearns Eliot, Che cos’è un classico?, in Opere 1939-1962, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, 1993, pp. 473-495. Ivi in particolare pp. 481-482. Di questo avviso è anche Alberto Asor Rosa, quando sostiene: “La mia idea, invece, è che bisogna guardare ai classici non a posteriori, non in quanto ci sono e, in quanto ci sono, conclusi: ma da un angolo visuale molto vicino a quello che dei medesimi classici fu proprio […] Per capire ciò che essi hanno fatto, bisogna in qualche modo sforzarsi di tornarne contemporanei”. Da “Genus italicum”. Il canone delle opere, in Alberto Asor Rosa. Scritture critiche e d’invenzione, a cura di Luca Marcozzi, Milano, Mondadori, 2020, pp. 409-410.
  6. Alberto Asor Rosa, da “Genus italicum”. Il canone delle opere, cit., p.404.
  7. Ivi p. 414.
  8. Cfr. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, ed. critica e annotata a cura di Giuseppe Pacella, Garzanti, 1991, I vol., p. 255.
  9. Alberto Asor Rosa, da “Genus italicum”. Il canone delle opere, cit., pp. 406-407.

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Una risposta

  1. Piergiorgio Gallicani ha detto:

    Congratulazioni all’autore: un’ampia e argomentata panoramica sul tema trattato, senza mai cadere nello ‘scontato’ e con la capacità di rimarcare contenuti precisi e una tesi di fondo che resta e stimola riflessione. Grazie.

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