“31 anni e una pandemia”. Capitolo 22: Terra arata

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Giuseppe Turchi

31 anni e una pandemia

 

Parte II
“Liberato”

22. Terra arata

Non ti fa male la lama d’aratro che affonda?

«Io ne ho bisogno e questo mi basta.»

Allora perché fai resistenza? Il nostro vecchio trattore OM dovrebbe volare su questo campo, invece i suoi cingoli sono come appesantiti.

«Io non ho potuto scegliere la mia natura. L’intera collina è di pasta argillosa. Ararmi è l’unico modo affinché i nutrienti raggiungano le radici.»

Il massiccio cingolato arancione non s’intimidisce e traina il vomero con costanza. In trent’anni che lo sento, il suo motore canta sempre alla stessa maniera. A bordo non monta nessuno strumento digitale. Solo sistemi idraulici e leve manuali. Forse è per questo che dà l’idea di essere eterno. Ricordo che da piccolo non avevo nemmeno la forza per schiacciare i pedali, o anche solo per farlo svoltare. Però ne andavo pazzo. Mia madre dice che non disegnavo altro. Lei stessa era costretta a farmi vedere dei trattori per farmi mangiare.

«Perché mi hai fatto quella domanda?»

Perché tu hai trovato un senso nei tuoi solchi, mentre io fatico a trovarlo nei miei. L’esperienza che ferisce dovrebbe portare un po’ di conoscenza alla base, no?  Costruire il carattere per affrontare meglio il futuro. Invece non mi sembra di portare nutrienti alle mie radici.

«Mi hanno detto che in questo periodo sei preoccupato. Forse è per questo che non vedi i tuoi progressi.»

Oh, sono preoccupato sì. Hanno corretto le graduatorie per la seconda volta e io ho perso ottanta posizioni. Dovevo essere convocato per mercoledì, invece andrò a venerdì, ammesso che restino posti.

«Si tratta solo di aspettare due giorni, coraggio!»

No, è una questione strutturale. Non posso far dipendere il mio lavoro da una specie di lotteria.

«Nel tuo caso dovrebbe trattarsi solo di pazienza. Sento che invece hai tanta fretta.»

La pazienza l’ho persa a ogni passata d’aratro. Questo è un danno, perché me ne servirebbe tanta. Ho fatto un test per misurare le mie competenze, o skills, come si usa dire oggi. Sai quante ne ho? Due. Problem solving e team working. In pratica cerco sempre di sfangarla e so stare in un gruppo, almeno a parole. Di hard skills, invece, non ne ho.

«Cosa sono?»

Sono le competenze tecniche e linguistiche, ovvero quelle che ti fanno lavorare. Alfio, per esempio, è pieno di hard skills, mentre chi ha un lavoro stabile ne ha acquisita almeno una. Il sito riportava che nel mondo attuale il cambiamento è così veloce che nel 2022 nasceranno nuovi impieghi per cui è necessaria una formazione permanente. Sai in quale soft skill sono carente? Nell’adattabilità al cambiamento. Il Laghetto aveva sbagliato a giudicarmi.

«O forse sei tu che pensi di non avere talenti solo perché non li hai ancora visti germogliare. I semi non fioriscono se non trovano il contesto. Se ne stanno chiusi in loro stessi, duri e inerti come sassi. Nessuno direbbe che da loro può nascere una pianta. Trova il tuo contesto. L’hai scritto anche nel tuo libro: devi cercare e fare cernita.»

Mio zio scende il lieve pendio controllando che la lama dell’aratro sia sempre ben posizionata. Quando arriva ai tre quarti del campo, comincia a virare a destra perché la terra si rivolti meglio.

Nonostante le mie turbe, l’aria che si respira è terapeutica. Sta pure uscendo un bel sole dalla nebbia. Questo posto ti fa dimenticare che c’è ancora una pandemia in atto e che i contagi sono in crescita.

Affondo le mani in una zolla di terra. Abituato come sono al tanfo dei gel disinfettanti, il suo profumo mi sembra più buono. Con l’occhio esploro i solchi alla ricerca di qualche bel lombrico. Di solito se ne trovano di enormi, ma questa volta non ne vedo. Eppure il sottosuolo dovrebbe essere ricco…

«A cosa stai pensando?»

Niente, è un’associazione stupida.

«Puoi dirla comunque.»

Pensavo che, per la mia generazione, il sottosuolo ricco sia quello dei nonni e dei genitori. Mi rendo conto che è solo grazie a loro che la mia vita, a partire dai sedici anni, non si è ridotta all’isolamento. A ogni visita i nonni mi elargivano una paghetta che io custodivo in una casetta con gli attrezzi per la pesca, un cimelio di quando, da piccolo, andavo al lago a prendere i pesci gatto col nonno. Conservavo quel piccolo tesoro con una cura maniacale stando ben attento a non sperperarlo. A fine anno arrivavo con un centinaio di euro di fondo cassa. Per fortuna non ho mai avuto il vizio del fumo e dell’alcool.

«Direi che è normale che i nonni aiutino i nipoti.»

Anche questa è una lotteria. Che non mi piacciano birra e sigarette non è questione di fortuna? Che non mi interessino gli abiti firmati, gli aperitivi chic, le vacanze di pregio?

«Dipende tutto dal contesto. Forse non ti piacciono perché non te li sei potuto permettere, o non hai voluto permetterteli. Non vieni da una famiglia borghese.»

È vero, ma ho visto molti coetanei partire dallo zero assoluto e concederseli. Nessuno copriva loro le spalle. Hanno dovuto ingegnarsi, magari lavorando come camerieri, baristi, factotum.

«Tu non avresti potuto.»

È vero. Come ho detto al Mare, però, le risorse personali emergono quando si è in difficoltà.

«Infatti: tu ci sei sempre stato.»

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