Filosofia nei tecnici: quale e quando?

Di Giuseppe Turchi

 

Sta facendo scalpore la recente notizia del Ministro Bianchi che avrebbe in preparazione una riforma per l’introduzione della filosofia negli istituti tecnici. Informatici, elettricisti, agrari, geometri, ragionieri, chimici, grafici avrebbero accesso alla materia come poteva accadere nei cosiddetti I.T.S.O.S. (istituti tecnici statali a ordinamento speciale) comparsi sul finire degli anni Settanta.

La proposta ha da subito diviso l’opinione pubblica, anche all’interno degli esperti del settore. Massimo Cacciari, per esempio, ritiene ridicolo inserire una materia se prima non si ripensa l’intero ordinamento. Al contrario, Umberto Galimberti è entusiasta dell’idea che anche i tecnici possano finalmente confrontarsi con i temi dell’etica, dell’epistemologia e dell’argomentazione, e allargherebbe la riforma a tutti i gradi di scuola.

Le difficoltà della filosofia

Ma facciamo un passo indietro: perché ci sarebbe bisogno di filosofia? Ho già approcciato il problema in un altro articolo dove discutevo proprio della necessità di aggiornare il curriculum degli studenti con saperi umanistici (socio-psico-pedagogici), ma qui vorrei concentrarmi specificatamente sulla filosofia. Perché se da un lato comprendere l’importanza dell’intelligenza emotiva potrebbe essere un compito alla portata di tutti, non lo è di certo quello di districarsi tra le astruse questioni filosofiche. Non lo è perché non siamo abituati ad argomentare secondo le regole della logica, perché la terminologia è complessa e perché il livello di astrazione sembra allontanarci dalle impellenze di tutti i giorni. In pochissimi conoscono cosa sia la fallacia dell’affermazione del conseguente, in ancora meno sanno spiegare una riduzione eidetica, e di certo gli ignari non saranno incentivati a informarsi quando il loro problema principale è quello di arrivare a fine mese.

Secondariamente, non essendo la filosofia una disciplina capace di offrire conoscenze certe nel senso delle scienze dure, richiede un grande sforzo di rielaborazione personale. Le teorie della verità, del bene, del liberalismo, della conoscenza sono tante e in continuo scontro. Prendete un qualunque articolo di filosofia analitica, e troverete l’autore Tizio che espone gli argomenti a favore della teoria x e contro la teoria y. Sicuramente vi sarà un altro autore, Caio, che avrà argomenti buoni per y e contro x. La scelta dell’individuo allora ricadrà su quella che gli parrà risolvere più problemi, senza dimenticare l’influenza delle attitudini personali e dei paradigmi dominanti dell’epoca. Sulle leggi della dinamica, che pure seguono un principio di falsificabilità per essere scientifiche (e che risentirebbero anch’esse in qualche modo dei paradigmi dominanti dell’epoca), non c’è la stessa elasticità. Ottenuto un risultato, lo si riesce a testare con più facilità.

Fare filosofia è un’attività tremendamente energivora e che spesso non riesce a trovare applicazioni nel mondo vissuto. Sì, l’insegnamento e la scrittura di articoli o libri potrebbero essere un modo per “fare qualcosa” con la filosofia, ma proviamo a pensare più in grande. Come implementiamo un’affermazione “il vero è l’intero” nella vita d’ufficio? In quanti potrebbero mettere alla prova su vasta scala le teorie etiche di Mill e Kant per vedere cosa succede? Ci hanno provato gli psicologi morali creando piccoli set sperimentali, e potremmo addirittura pensare a qualche genitore un po’ pazzerello che decide di allevare il primo figlio secondo l’utilitarismo e il secondo attraverso una rigida etica del dovere, ma si tratterebbe di una minoranza risicata, e i risultati dubbi.

Affrontare la complessità: esempi

Ma se fare filosofia è un processo così drenante e che rischia di girare a vuoto, perché estenderlo a tutti? Di nuovo: perché si dice che ce n’è tanto bisogno? Una risposta potrebbe essere: perché ci stiamo scontrando con la complessità del mondo. Complessità che significa che in ogni fenomeno sono implicati tantissimi fattori. Facciamo due esempi.

Per molto tempo s’è creduto che la visione di una casa fosse un fenomeno di semplice rispecchiamento. La nostra percezione ci offre una copia di quello che c’è fuori, in modo diretto, fine della storia. Poi s’è scoperto che il veicolo di trasmissione delle immagini è la luce (fisica), che ci sono dei processi cerebrali che elaborano l’immagine (biologia), che dobbiamo avere un linguaggio per poter dire che sto vedendo “una casa” e che a seconda del valore che do a questo termine (es. casa come nido sicuro) posso provare emozioni diverse. Eh sì, senza il concetto di “casa” noi vedremmo solo un “qualcosa”, che è un’esperienza ben diversa.

Il secondo esempio riguarda il carattere. Il pensiero comune ha solitamente due idee in merito. La prima è che la personalità di qualcuno sia innata, o comunque non modificabile in alcun modo. È il tipico “È fatto così, e basta”. L’altra è che le persone scelgano consapevolmente di essere un determinato tipo di persone e che quindi è colpa loro se sono diventate così (es. egoisti, maleducati, spilorci, ecc.). Da che punto lo si guardi, il carattere sembra sempre un fatto puramente interno e individuale. Siamo disposti ad ammettere delle influenze esterne solo nel caso di grossi eventi traumatici (es. “È così perché aveva genitori violenti”; “È così perché ha lottato contro la malattia”, “È così perché ha sofferto la perdita del marito”).

Ebbene, pare che non sia così. Le influenze esterne contano moltissimo e fanno parte di quei numerosi fattori che rendono lo sviluppo del carattere un fenomeno complesso. Tutto ci plasma, non solo gli eventi traumatici. Il pensiero assorbito dalla famiglia, dalla TV, il modello di scuola, il mondo del lavoro che stressa i nostri genitori, le sfortune, le fortune, i messaggi delle canzoni, i baci della nonna, il dormire nel lettone, l’allattamento al seno, la quantità di piombo nell’aria, l’essere nati in un Paese occidentale od orientale, ecc.

Il mondo, la nostra esperienza, è un’infinita rete di relazioni più o meno dirette. La scoperta dell’energia dell’atomo è diventata un problema etico quando sembrava dover essere nient’altro che una ricerca fisica. E tale problema etico ha col tempo incluso l’ambiente intero, non solo le persone uccise dalle bombe. Usando una metafora, potremmo dire che ogni cosa risuona con tante altre. Forse addirittura con la totalità.

Dicevo, insegnare a filosofare sarebbe necessario per meglio gestire questa complessità sempre crescente. Se ne stavano accorgendo quando l’industria aveva acquisito il modello spersonalizzante della catena di montaggio, e ce ne stiamo accorgendo meglio ora con i danni causati dagli smartphone. Quelle che dovevano essere mere innovazioni tecnologiche su cui lucrare economicamente sono diventati problemi di analfabetismo, dipendenza, bullismo, individualismo, narcisismo, manipolazione, divario sociale, ecc. Tutto risuona…

La filosofia come metodo integratore

Ora, se la storia della filosofia può dirsi una conoscenza perché conosco il pensiero degli autori e il loro contesto, fare filosofia è probabilmente un metodo integratore, ed è ciò che sta alla base della vita di ciascuno di noi, perché procede per domande che in un modo o nell’altro ci siamo posti tutti.

  • Che cos’è questo?

Definire i concetti è un’operazione squisitamente filosofica messa in risalto da Socrate. Per semplicità diremo che si definisce un concetto trovandone le sue proprietà. Sembra banale, ma quando i nazisti stabilirono “ariano” come proprietà delle razze superiori, non è finita molto bene.

  • Cos’è vero?

In un mondo in continuo mutamento non è facile stabilire cos’è vero. La maggior parte delle persone dà per vero ciò che viene loro dai sensi. Oggi però assistiamo con drammatica chiarezza a quel fenomeno che pone come vero ciò che ci fa comodo essere vero (vedi complottismi, vedi manipolazioni sui social media). Anche qui, non siamo finendo molto bene.

  • Cos’è giusto?

Per un egoista è giusto tutto ciò che gli fa comodo. Siamo in un’epoca in cui i social ci fanno credere di essere al centro dell’universo e in cui i life coach ci dicono che siamo pieni di potenziale. Poi magari condividiamo compulsivamente foto inappropriate per godere dei like o apriamo un’azienda che ci fa assaporare il sogno americano, magari tenendo alla fame gli operai. Nel mentre mandiamo il mondo in rovina perché crediamo che la natura sia a nostra disposizione e abbia risorse per una crescita infinita.

  • Cosa posso o non posso fare?

Possibilità e necessità sono categorie etiche (es. permessi e doveri) e logiche, ma possono anche riguardare il concetto di limite pratico. L’essere umano è limitato, ad esempio, nella conoscenza, ma moltissime persone parlano con la convinzione di avere le risposte a tutto, dimenticando che non è così che funziona. Ancora, non possiamo predire il futuro (con buona pace dei fattucchieri), e non possiamo mai metterci completamente nei panni di un’altra persona (se diventiamo lei, non siamo più noi).

  • Perché succede questo?

Attraverso il concetto di causa cerchiamo di orientarci nel mondo, di prevedere quello che succederà. Il problema odierno è che consideriamo poche cause nei fenomeni, quando i fenomeni, come ho mostrato, sono complessi. La gente non sta male solo per colpa del PIL che non cresce. Io non sono solo unicamente per colpa degli altri. I politici non hanno successo solo perché le loro idee sono le migliori (anzi…). La scuola non sta andando a rotoli solo perché non ci sono più gli alunni di una volta.

Considerato il funzionamento della mente umana e l’importanza delle abitudini che si acquisiscono nell’età dello sviluppo, ritengo che insegnare nelle scuole la filosofia come metodo integratore sia quantomai benefico per crescere persone capaci di affrontare i periodi di crisi. O più semplicemente, i problemi. Magari un ragazzo con un’infarinatura su come valutare le notizie (filosofia) e con un contesto di crescita capace di soddisfare i suoi bisogni emotivi (psicologia) avrà meno probabilità di diventare un cieco complottista che danneggia la società. E la consapevolezza dei miei limiti mi porterà a dire che questa stessa affermazione avrà valore probabilistico e che non potrò mai asserirla come certezza assoluta.

Dove inserire ore di filosofia?

Il problema è dove metterla, questa filosofia come metodo, nei già fittissimi orari degli istituti tecnici. Chi scrive è attualmente supplente di sostegno in un istituto tecnico e ha potuto ricordare che razza di tour de force sia passare da una materia all’altra. Se questo da un lato dovrebbe incentivare la plasticità mentale, dall’altro risulta in uno sforzo cognitivo enorme per via dei pochi momenti di pausa. L’apprendimento richiede un tempo di sedimentazione e questo non viene dato se nel giro di cinque minuti si passa dalle leggi della termologia alle formule di diluizione con la loro infinità di simboli e numeri. Aggiungere filosofia potrebbe essere visto come un momento di respiro per coloro che hanno inclinazioni più umanistiche, ma essere un tormento per gli appassionati delle materie tecnico-matematiche.

Se la filosofia è un metodo integratore che sta alla base, l’ideale dovrebbe essere che tutti gli insegnanti acquisissero questo metodo per poi declinarlo nelle proprie lezioni. Purtroppo, abbiamo detto che si tratta di un metodo energivoro che richiede applicazione, quindi tempo, per essere acquisito, e di tempo i docenti non ne hanno. Non basterebbero corsi da qualche decina di ore, perché si tratta di una pratica di vita. Allora dovremmo lasciare questa nuova materia a figure competenti (si spera) e cioè ai laureati in filosofia, la cui laurea sciagurata limita tantissimo le possibilità di entrare nel mondo della scuola. La riforma Bianchi li renderebbe felici, ma di nuovo, dove prendiamo le ore? Quante ne mettiamo?

Nei precedenti articoli avevo proposto di ridurre le ore tecniche nella scuola dell’obbligo. Questo perché gli integrali si dimenticano se non si usano più, mentre un metodo integratore resta per il corso della vita. Il grande scollamento tra il mondo della scuola e il mondo del lavoro impone che i diplomati debbano comunque affrontare un periodo di apprendistato, perché le loro conoscenze non sono mai abbastanza o non sono mai sufficientemente aggiornate. Tant’è che, sotto il punto di vista della preparazione al lavoro, sono le buone esperienze di alternanza ad essere formative più di tutto il curricolo scolastico. “Ho imparato di più in tre mesi lì che in tre anni a scuola”, si sente dire dai ragazzi.

Guardando al mondo dei concorsi, poi, possiamo vedere le persone più disparate vincere posti amministrativi dopo aver studiato i noti libri riassuntivi. Che competenza ha un perito informatico per diventare ragioniere in Comune? Basta aver letto quella o quell’altra dispensa? Ne dubito. Il concetto è che il lavoro s’impara sul campo e la scuola non può sostituire quel campo. Come sostiene Galimberti, la scuola dell’obbligo dovrebbe formare persone, dare strumenti che consentano loro di imparare ad imparare, competenze che restino per la vita, deponendo l’aristotelico mito dell’erudizione fine a se stessa. Si tratta di una linea di pensiero scomoda perché porterebbe a interrogarci sulla funzione non solo degli istituti tecnici, ma pure dei professionali e delle università. A domandarci su cosa eliminare nelle lezioni. La storia medievale? Le derivate? La storia della letteratura? I vecchi linguaggi di programmazione? Fisica, chimica e biologia nei bienni comuni? Religione? Scienze motorie (tanto c’è Instagram che sta facendo la fortuna delle palestre)? Infine, a chiederci se non dovrebbero essere le aziende a fare formazione personalizzata e aggiornata. Ma non tutte le aziende hanno soldi e tempo.

Ecco, forse se avessimo oggi più persone avvezze al metodo integratore della filosofia, avremmo più probabilità di trovare soluzioni creative per un problema complesso in cui sia Cacciari che Galimberti hanno, in realtà, ragione.

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2 risposte

  1. Francesco Gianola Bazzini ha detto:

    Secondo Antonio Gramsci, ogni essere pensante è un filosofo. Quindi perché negare ad uno studente, seppure di materie tecniche, l’opportunità di arricchire il proprio pensiero?

    • Turchi ha detto:

      Aveva ragione. Le domande di base ce le facciamo tutti, e avere un metodo per gestirle può fare la differenza. Il terreno probabilmente andrebbe preparato dall’infanzia, che è l’età dove si è più plastici e dove buoni imprinting possono portare ottimi frutti in futuro.

      Il grande problema è l’interconnessione dei fattori da tenere sotto controllo, dal monte ore a scuola alla spesa pubblica, dai bisogni aziendali ai bisogni umanistici. Quel che è certo è che non possiamo pensare a una filosofia per élites, altrimenti non solo si perpetueranno discriminazioni, ma condanneremmo i tanti sforzi economici e pedagogici a una bassissima resa.

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