Cinque criticità dell’educazione scolastica (e alcune forti provocazioni)

di Giuseppe Turchi

Che il sistema scolastico debba essere riformato non è una questione che riguarda solo il metodo di reclutamento dei docenti. Nel corso degli anni la letteratura scientifica inerente le tecniche e tecnologie didattiche è cresciuta sempre più, complici la sinergia con discipline come la neuropsicologia e la maggiore attenzione posta sulla figura dell’alunno. Nel mentre ricercatori e insegnanti hanno dovuto far fronte ai repentini cambiamenti di contesto indotti, in buona parte, dallo sviluppo tecnologico. Penso al passaggio dalle campagne alla città, all’avvento della televisione, del Personal Computer, fino ad arrivare ai social network, il tutto accompagnato dalle grandi battaglie per i diritti civili di donne, lavoratori, e delle minoranze in genere.

Ogni cambiamento di contesto ha prodotto nell’individuo una nuova percezione della società e del ruolo che egli può ricoprire in essa. Per esempio, se nel passato fare famiglia era un imperativo, oggi assistiamo a un aumento delle famiglie unipersonali. Fino a dieci/quindici anni fa mai nessuno avrebbe solo pensato di poter diventare un influencer, mentre oggi è diventato un obiettivo per molti.

Anche i giovani si sono trovati ad affrontare cambiamenti sempre più repentini. Così repentini che le loro facoltà cognitive non avrebbero ancora fatto in tempo ad adattarsi (o almeno così ci dicono i noti bioeticisti Ingmar Persson e Julian Savulescu), tant’è che la fede positivistica in un futuro di solo progresso tecnico-sociale ha vacillato di fronte a dati allarmanti, tra cui: diffuso dell’analfabetismo funzionale, incompetenza digitale, forti polarizzazioni, aumento di disturbi narcisistici della personalità.

Ebbene, che ruolo ha giocato la scuola in tutto questo? Nonostante i tentativi di riforma della didattica, il sistema sino ai giorni nostri ha avuto sempre un obiettivo: far progredire l’alunno attraverso verifiche, interrogazioni, voti. Entrato nella scuola, lo studente ha il compito di imparare nozioni e di saperlo dimostrare, dopodiché un pezzo di carta certificherà le competenze acquisite. L’accertamento di tali competenze è, in alcuni casi, molto facile: un’equazione di secondo grado o la si sa risolvere, o non la si sa risolvere; la data della guerra franco-prussiana o la si ricorda, o non la si ricorda. Ma che dire del tanto propagandato senso critico? E di quel santo Graal chiamato intelligenza emotiva?

“Si vede da quel che l’alunno scrive e da come si comporta”, potrebbero dire alcuni professori.

Bene, ma come glielo si insegna?

“Ci sono le ore di italiano, storia e religione; in alcuni licei addirittura di filosofia, scienze umane, diritto! E poi non è compito della scuola insegnare l’intelligenza emotiva, ma dei genitori.”

D’accordo, ma a loro chi gliel’ha insegnata?

È qui che, io credo, riscopriamo come il modello scolastico, sin dai tempi di Gentile, non abbia voluto altro che alunni che s’impegnassero a memorizzare nozioni. Un mero accumulo di conoscenza pensato per far evolvere quel fantomatico Spirito tanto caro agli idealisti, e che invece oggi sarebbe dovuto diventare funzionale secondo le esigenze aziendali (condizionale d’obbligo).

Dalla mia esperienza come studente e come aspirante docente ho potuto constatare che non basta la produzione di un saggio breve per sondare le capacità critiche di un alunno, come non basta la matematica per potenziare quelle logiche. L’alunno può scimmiottare con facilità il pensiero del prof. e ridurre gli esercizi di matematica a rebus meccanici. Cosa sia e che implicazioni abbia la consapevolezza emotiva, probabilmente, non lo sanno nemmeno i prof. Che fare, allora?

Prima di tutto, prendere consapevolezza di alcuni macro-problemi che incontriamo nel nostro contesto storico. Ne evidenzio, tra i tanti, cinque:

  1. Le conoscenze acquisite durante la scuola dell’obbligo non durano molto una volta finita la scuola (la mente e il cervello dimenticano ciò che non usano)

  2. La maggioranza delle famiglie non è in grado di fornire un’educazione civica/affettiva/interculturale/al pensiero critico

  3. Non possiamo pensare che a 14 anni un ragazzino abbia già chiaro cosa voglia fare da grande, considerato anche che la fase dell’adolescenza si è allungata e molte responsabilità vengono posticipate

  4. La scuola non dovrebbe essere un’azienda, quindi non dovrebbe inseguire il mito dello studente con le competenze del proto-lavoratore, giustificando così una mancata formazione come persona…

  5. … anche perché, una volta arrivato in azienda, il diplomato troppo spesso scopre di dover imparare il lavoro da zero

Dato un contesto siffatto, come si potrebbe correre ai ripari? La mia personale risposta è: trovando del tempo per insegnare a scuola ciò che non viene trasmesso al punto 2. Non è tollerabile, infatti, che ci voglia un corso universitario di logica (o una prova preselettiva ai concorsi pubblici) perché la persona si approcci con la logica elementare (regole d’inferenza, metodo deduttivo, fallacie logiche). Come non è tollerabile che una persona sia costretta, dopo aver fatto o subìto infiniti danni, ad andare da uno psicologo per poter sviluppare una buona affettività. Sia la logica che l’intelligenza emotiva sono due competenze che servono sempre nella vita, poiché la pervadono. Che fattori così importanti per lo sviluppo umano siano lasciati all’improvvisazione o al caso è semplicemente deleterio.

Con questo intendo forse ritornare all’idea di Gentile, il quale pensava che la formazione classica/umanistica fosse materia per le élites che avrebbero governato il Paese? Assolutamente no. Quello era ancora un modello fondato sul rigore, l’autorità, la memorizzazione e la ripetizione degli esercizi per favorire la memorizzazione. Ma dove trovare il tempo per inserire nuove materie nei percorsi curricolari? I piani di studio prevedono già tantissime discipline le quali, a loro volta, contengono una quantità sterminata di nozioni. Il sistema suddiviso in ore, mi ha fatto notare il prof. Alessandro Bosi, non sembra più reggere le necessità di quest’epoca. Secondo il professore si tratta di vecchio hardware che non può far funzionare nuovi software. Credo che Alessandro abbia ragione, ma siccome non sono ancora in grado di ragionare fuori dallo schema delle “ore”, lancerò una provocazione riguardo a come reperire il tempo mancante.

È mia convinzione, infatti, che la ripartizione delle materie nei vari gradi d’istruzione non sia funzionale. Troppo viene inserito in memoria e troppo poco viene utilizzato nel concreto, condannando all’oblio gran parte delle informazioni acquisite (punto 1). Ecco alcuni esempi, sempre provocatori.

  • È utile che un ragazzino di terza media sappia risolvere complicati problemi di geometria o di aritmetica, ma non abbia idea di cosa sia un non sequitur?

  • Come può suddetto ragazzino immedesimarsi nei problemi e nelle emozioni che mossero adulti come Dante o Manzoni, e intanto non conoscere nemmeno le basi della comunicazione non violenta?

  • Quanto è utile che egli sappia a menadito le date di famose battaglie mentre dall’altro nessuno gli insegna con metodo a difendersi dai pericoli del Web?

  • Ha senso che, in uno stato laico e multietnico, si faccia ancora religione cattolica anziché riassorbirla in percorsi interdisciplinari?

Che si impari pure a leggere, scrivere e far di conto nei grandi inferiori d’istruzione, ma nel mentre si comincino a innestare i buoni habiti della persona civile, a scapito di tutto ciò che è troppo tecnico, o semplicemente prematuro. Lo sviluppo dell’affettività deve essere il fulcro dell’educazione dei primi anni di vita, e questo lo consiglia la neuropsicologia.

Che dire invece delle superiori? Come si può rosicchiare tempo, poniamo, alle materie tecniche in un istituto tecnico-professionale? In merito a questo devo dire che sia da insegnante, che da studente, mi sono sempre ritrovato di fronte al problema della poca aderenza degli apprendimenti scolastici alle necessità concrete delle aziende. In informatica, per esempio, è essenziale sapere come gestire i dati in una ‘coda’ o in una ‘pila’, ma poi lo studente potrebbe ritrovarsi in un’impresa in cui si utilizza un nuovo linguaggio di programmazione che deve essere appreso da zero. Molto disagio ho recepito anche dagli studenti del ramo economico.

A questo punto, non bisognerebbe forse concentrarsi sulla capacità di imparare cose nuove? E non sarebbe bene che le aziende puntassero di più sulla formazione, lasciando all’università tutti quegli approfondimenti che un diplomato difficilmente potrà mettere a frutto nel mondo del lavoro? Mi riferisco a quegli argomenti che sono solo carico cognitivo finalizzato all’ottenimento non di una competenza, ma di un voto. Perché aver fatto gli integrali in quinta superiore è sicuramente meglio se si vuole affrontare un esame di analisi all’università, ma non è condizione necessaria né sufficiente per superarlo, e solo una minoranza li incontrerà nella vita di tutti i giorni. Senza considerare che a ogni passaggio di grado scolastico tantissime nozioni vengono dimenticate e si riprendono nel grado successivo, mettendo a nudo la labilità della nostra memoria e l’inefficacia pragmatica della didattica.

Il tempo, insomma, si potrebbe trovare, anche allungando l’orario scolastico, poiché la nuova educazione che serve al cittadino si compone più di pratica e di esercizio che di teoria. È un luogo in cui i voti e le verifiche sono secondari, un luogo dove s’impara mettendo in atto. Perché tante sessioni di forest bathing, oppure tanti progetti teatrali sceneggiati secondo la comunicazione empatica insegnano, rispettivamente, più attaccamento ecologico e più buone maniere che qualunque dissertazione teorica.

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