Viaggi di esplorazione nell’Antichità. Prima parte

Di Sergio Michele Tardio*

*medico-chirurgo, già direttore responsabile del Rep. “Trattamento Intensivo del Diabete e delle sue Complicanze” dell’Az. Ospedaliero-Universitaria di Parma e dopo il pensionamento libero professionista nelle specialità Diabetologia e Malattie Metaboliche.

 

Nell’antichità sono state riportate molte storie di uomini che hanno lasciato le loro case per muoversi su vie di terra e di mare alla ricerca di merci preziose o necessarie alla vita quotidiana o spinti da desiderio di conquista o da semplice curiosità scientifica e che hanno raggiunto e spesso superato i “confini del mondo” allora conosciuto. Le imprese avvincenti e avventurose di questi antichi esploratori verso terre ancora da scoprire e rotte da percorrere testimoniano la grande intraprendenza ed il grande coraggio di egizi, fenici, cartaginesi, greci e romani che diedero “forma al mondo quale fu conosciuto nel sapere dotto dei geografi ed in quello pratico dei mercanti e dei soldati” (Claudio Finzi). Queste testimonianze, quasi sempre descritte per sentito dire o riferendosi ad opere di autori precedenti, infarcite di leggenda e mitologia, rendono complicato ricostruire gli itinerari poiché i luoghi citati sono segnalati con nomi antichi non più in uso o si attribuiscono nomi mitologici a posti sconosciuti.

Gli studiosi comunque sono riusciti a tracciare con buona approssimazione i percorsi di questi viaggi basandosi sulle descrizioni dei luoghi contenute nei documenti arrivati sino a noi.

Non ho ritenuto opportuno considerare i racconti mitologici per le notizie fantastiche contenute o le imprese descritte nella Bibbia perché ammantate di sacralità e quasi sempre con destinazioni di difficile identificazione e le spedizioni militari in forze (quelle di Alessandro il Grande, di Agricola e delle avanguardie delle legioni romane che esploravano il terreno prima dell’invasione), ma solo le imprese di singoli uomini o di piccoli gruppi di cui si ha documentazione credibile.

 

Gli egiziani nel paese di Punt ed all’equatore

Fonti: iscrizioni in templi e tombe

Uno dei più antichi documenti di viaggi è una iscrizione nel tempio di Deir el-Bahri presso Tebe: “con felice partenza e felice arrivo per mare dei soldati del Signore delle due Terre (alto e basso Egitto) nel paese di Punt… una potente regione che gli egiziani conoscevano per sentito dire. La regina Makare ha ordinato di portare al dio Amun merci preziose degne della grandezza di lui”. La regina Makare Hatshepsut regnò alla fine del XVI secolo avanti Cristo dopo aver deposto il figliastro faraone Tutmosi III e non avendo compiuto imprese guerresche si sarebbe gloriata dei grandi viaggi commerciali. Dov’era Punt? Siccome sappiamo dall’iscrizione che i marinai riportarono incenso e mirra e che i paesi di origine di questi prodotti si trovano sulle sponde dello stretto di Bab el-Mandeb, il paese di Punt andrebbe identificato come gli odierni Yemen ed Eritrea. Alcuni studiosi l’identificano invece con la Somalia perché più aderente alle merci descritte ed altri (Cary e Warmington) con l’Arabia perché i capi bovini raffigurati a Deil el-Bahri non hanno la gobba del bestiame somalo, a quel tempo ancora sconosciuto in Egitto. La partenza sarebbe avvenuta dalla costa di Henenu sul mar Rosso e la via dalla valle del Nilo al mare, aperta durante il regno di Mentuhope III, fu utilizzata anche nel periodo romano ed è tutt’oggi percorsa dal traffico motorizzato. Dai rilievi del tempio sappiamo che la spedizione era composta da 5 navi di tipo fluviale, cioè prive di chiglia e tenute insieme da un lungo cavo da prora a poppa e altri cavi laterali, che, nonostante queste precarietà, diedero buona prova di sé e ritornarono cariche di merci, aprendo per i secoli successivi la rotta per il corno d’Africa.

Una altra curiosa iscrizione è stata rinvenuta nella tomba di Harkhuf, nomarca (governatore) di Elefantina (circa 1900 a. C.), dove sono descritti quattro viaggi, fatti su invito del faraone cioè con finalità politico-militari, risalendo il corso del Nilo oltre la seconda cateratta fino ad un paese abitato da piccoli uomini (pigmei). Ma quale fu il limite meridionale raggiunto da Harkhuf? Alcune tribù di pigmei vivono tuttora sotto il 6° parallelo nord, ad ovest della regione dei grandi laghi, però sulla parete della tomba è disegnato il dio Seth con una testa animalesca di okapi, strana parente delle giraffe scoperta solo nel 1901, che vive nelle foreste del Congo a sud dell’equatore. Questo animale non si è mai diffuso più a nord e quindi gli egiziani non potevano conoscerlo. Perciò se la testa animalesca è proprio quella di un okapi bisogna supporre che gli esploratori egizi arrivarono fino al bacino del Congo.

Cosa cercavano così a sud gli Egiziani? Certamente merci preziose come l’avorio, ma forse questi viaggi erano dettati da motivi strategico-economici più ampi. Tra Mozambico e Rhodesia esistono e probabilmente esistevano miniere d’oro e di antimonio, materiale usato nei cosmetici egiziani ed un collegamento terreste con questi luoghi avrebbe evitato di passare attraverso lo stretto di Bab el-Mandeb controllato da popolazioni più sviluppate ed organizzate e quindi in grado di fermare il traffico egizio. Infatti nei secoli successivi le regioni equatoriali videro altri viaggiatori egiziani: una iscrizione di Ramses II nel tempio di Luxor cita i paesi dove vivono popolazioni nere, gli acquitrini del Nilo bianco e parla dei quattro pilastri dell’universo ed uno di questi potrebbe essere l’alta montagna del Kilimangiaro.

 

La circumnavigazione dell’Africa (598 – 595 a.C.)

Fonte: Erodoto “Le Istorie”

Sia gli Egiziani che i Greci dell’età arcaica ritenevano che il “grande Oceano” racchiudesse circolarmente tutte le terre emerse. Seguendo questa ipotesi il faraone Neco II organizzò una spedizione navale forse nel tentativo di unificare i due fronti marittimi egiziani (quello mediterraneo e del mar rosso), dal momento che l’antico canale che collegava il delta del Nilo al golfo di Suez, permettendo a piccole navi di passare da un mare all’altro, si era interrato. Ma soltanto un percorso non troppo lungo avrebbe reso possibile e governabile questa via marittima e l’unico modo per accertare come stavano le cose era andarle a verificare. Furono assoldati equipaggi fenici che erano il meglio che si potesse trovare sul mercato e probabilmente anche le navi erano fenicie. Erodoto, che è l’unico a testimoniarci il viaggio, parla di triremi, cioè di navi da guerra veloci e maneggevoli. Il testo di Erodoto recita: “il faraone Neco mandò navi fenice salpate dal golfo arabico per circumnavigare la Libia e ritornare in Egitto attraverso le colonne d’Ercole… all’arrivo dell’autunno approdavano, seminavano la terra, raccoglievano il grano e ripartivano… ma hanno detto una cosa alla quale non presto fede: a un certo punto avrebbero avuto il sole alla destra delle navi…”,  cioè a settentrione durante la rotta est-ovest o, secondo altre interpretazioni, sarebbe sorto sulla destra nel corso della risalita del continente. Sono proprio i dubbi di Erodoto che ci fanno pensare che il viaggio sia effettivamente avvenuto, perché i naviganti avrebbero segnalato un particolare astronomico reale ma che poteva sembrare assurdo ai contemporanei i quali, come Erodoto, erano “terrapiattisti”. Nel racconto mancano troppi dettagli: non vi è cenno alla vegetazione tropicale, alle foci dei grandi fiumi incontrati (la navigazione in mari sconosciuti si faceva sempre sottocosta), alle popolazioni visitate durante le soste per la semina, i venti e le correnti incontrate, alla scomparsa della stella polare ed al sorgere delle sconosciute costellazioni australi. Una spiegazione potrebbe essere che gli informatori di Erodoto, il quale scrive circa 150 anni dopo l’impresa, fossero i sacerdoti egizi che conoscevano il rapporto fatto al faraone (che era il successore di Neco perché questi era morto prima del ritorno dei fenici) in cui queste notizie erano ritenute poco importanti dal momento che il viaggio era durato troppo a lungo (percorse oltre 13.000 miglia, cioè circa 26.000 Km) per gli obiettivi economico-militari egiziani. Passato il capo Guardafui aiutati del monsone avrebbero agevolmente passato l’equatore e poi la forte corrente del Mozambico potrebbe averli spinti verso il capo di Buona Speranza dove verosimilmente sostarono fino alla mietitura (il percorrere la costa deve aver reso possibile avvertire i segni dell’autunno australe per decidere quando seminare).  Dopo aver doppiato il capo, grazie alla corrente di Benguela, risalirono la costa occidentale africana fino al golfo del Biafra, per avanzare con grande difficoltà, probabilmente a forza di remi, contro la corrente di Guinea, che scorre in senso contrario, e la scarsità di vento nelle calme equatoriali; poi trovarono l’aliseo di nord-est che tendeva a portarli al largo ma l’avanzare dell’autunno boreale li costrinse ad approdare, probabilmente sulla costa del Marocco, per trasformarsi ancora in contadini. Poi forse incontrarono le colonie fenicie nei pressi delle colonne d’Ercole: possiamo immaginare l’emozione provata a trovare uomini che parlavano la loro stessa lingua e la conseguente certezza di aver compiuto una impresa memorabile. Qualche studioso ritiene che la durata del viaggio sia troppo breve ma, anche considerando una velocità di navigazione bassa (due nodi – due nodi e mezzo, cioè da 20 a 25 miglia al giorno) e due soste di alcuni mesi per la semina e la raccolta del grano, tre anni sembrano idonei a coprire l’intero percorso.

 

Altre esplorazioni africane per mare

Fonti: Erodoto “Le istorie”, Posidonio, Strabone “geografia”

Sempre Erodoto racconta la storia del nobile persiano Sataspe che aveva violentato una fanciulla e per questo era stato condannato a morte per impalamento da re Serse. Ma il gran re per intercessione della zia Teaspi era stato convinto a concedere la grazia se Sataspe fosse stato in grado di circumnavigare la Libia. Quindi partì con equipaggio fenicio, varcò le colonne d’Ercole e “proseguì verso mezzogiorno finchè la nave non si impigliò (insabbiamento?)”. Pertanto ritornò indietro e Serse lo “condannò all’impalamento per non aver compiuto il compito assegnato”. Il testo erodoteo che descrive il viaggio presenta molte imprecisioni e contraddizioni, tanto che alcuni lo ritengono un falso inventato da Sataspe per salvare la pelle, ma potrebbe anche darsi che Serse avesse colto l’occasione di un atto di clemenza per inviare una spedizione esplorativa piena di difficoltà. Il testo erodoteo accenna ad incontri con gente di piccola statura che usava vesti di palma ed “all’impigliamento” della nave facendoci supporre che dovesse esser giunto più a sud di Capoverde per essere poi fermato dalle calme equatoriali e dalle secche sottocosta che causarono l’incagliamento della nave.

Diversa è la vicenda del greco Eudosso che dalla natia Cizico si era trasferito in Egitto ai tempi di Tolomeo II (146-117 a. C.) e che al ritorno da un viaggio in India era naufragato sulle coste dell’Africa orientale e qui aveva rinvenuto una polena che esperti capitani attribuirono ad una imbarcazione di Gades sulla costa spagnola. Eudosso non ebbe dubbi: navi gaditiane facevano il giro dell’Africa per raggiungere l’India. Decise quindi di percorrere la medesima via per sottrarsi ai dazi dei sovrani egizi e commerciare più liberamente. I suoi viaggi sono descritti da Strabone, diffidente e critico sulle fonti ottenute, che però riporta l’opera di Posidonio che forse aveva avuto informazioni di prima mano perché si era recato a Gades, punto di partenza di Eudosso. Questi armò a sue spese una flottiglia composta da una grande nave e due imbarcazioni minori e “prese a bordo medici, musici, artisti e ballerine”. Evidentemente aveva intenzione di navigare al largo con la nave maggiore ed utilizzare i navigli minori per rapide puntate sulla costa al fine di raccogliere informazioni e rifornirsi di acqua e viveri freschi, inoltre stimando il viaggio abbastanza lungo preferì avere con sé un servizio sanitario e alcune distrazioni che evitassero all’equipaggio di intristire. Ciononostante, o forse proprio a causa dei dissapori che elementi estranei come artisti e fanciulle a bordo verosimilmente provocarono, i marinai si ammutinarono, la nave grossa si incagliò e la spedizione fu interrotta. Dove era giunto? Difficile dirlo poiché i dati che l’incredulo Strabone ricava dal testo di Posidonio sono pochi e contradditori. Eudosso dice di aver incontrato indigeni sudditi del re Bagos che forse sta per Bocco, re della Mauritania al tempo di Eudosso, pertanto non si sarebbe spinto oltre le coste meridionali del Marocco, ma sulla via del ritorno visitò un’isola ricca di acque e disabitata, identificabile con Madera. Eudosso che era un testardo ripartì con altre due navi (una rotonda ed una allungata con 50 remi), con carpentieri, attrezzi agricoli e sementi, senza musici e donne a bordo, il che conferma come questi abbiano avuto a che fare con l’ammutinamento. “Pensando alla lunga durata del viaggio intendeva svernare nell’isola appena scoperta, seminando e mietendo il raccolto”, dice Strabone, ma di lui e dei suoi marinai non si seppe più nulla. Non conosciamo fin dove sia giunto nel secondo tentativo né cosa gli costò la vita: una malattia tropicale?, un attacco degli indigeni durante una sosta?, un naufragio?

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