Pillole di Civiltà – Barbara

di Sonia Masini

Ho immaginato le civiltà, ho conosciuto la civiltà.
Via via scoprendone virtù e debolezze e come essa tenda a negare se stessa, per poi rigenerarsi.

 

Buonasera, sono Sonia.

È questo il nome cui sono molto legata e così mi pensano, mi cercano, mi nominano la mia famiglia, i miei amici, tante persone che ho incontrato o con cui ho lavorato.

Sonia è in definitiva per me un suono caldo, che mi parla dentro, mi definisce, persino mi emoziona.

La mia identità. La mia sicurezza, il mio angolo sicuro.

Forse.

Almeno dove mi conoscono e mi riconosco.

Perché in strade più lontane, percorse da una moltitudine di persone, ho cambiato spesso nome, sono diventata addirittura Anonima. Là sarei potuta chiamarmi in mille altri modi, o neppure essere chiamata, o riconosciuta.

Con alcuni di voi siamo diventati recentemente amici, abbiamo cominciato ad incontrarci, e davvero qui mi sento a casa.

Ma so che tra voi avrei potuto -potrei- essere Barbara.

Sono nata e vissuta oltretorrente.

Ma non quell’Oltretorrente così simbolicamente caro a questa città, affacciato sul corso d’acqua che ne congiunge le parti e la identifica.

No, io sono nata nell’altro oltretorrente, quello verso est, che porta un nome banale, che divide, che segna le opposte sponde.

Che non può appartenere ad una sola città perché appartiene a tanti e, in definitiva forse solo a se stesso, come tutti i luoghi di confine.

Se io fossi arrivata dalla vicina Reggio Emilia secoli fa, così, da sola, disarmata e fiduciosa, magari oltrepassando mura o scavalcando ponti levatoi, comunque marcati confini, avrei potuto persino essere resa prigioniera, nel sospetto ch’io potessi essere portatrice di chissà quale intrigo, o inganno o, peggio, epidemia.

Per molto meno non si son forse fatte la guerra città vicine come Parma e Reggio Emilia, Modena e Bologna, Sparta e Atene e così via…?

Per reciproche paure, diffidenze, o sete di dominio e tanto altro.

Per fortuna (mia) non è più così…..

Ecco, siamo finalmente diventati “civili”.

Ci comprendiamo, o almeno proviamo a farlo. E riusciamo pure ad incontrarci, a parlarci, a diventare amici, quasi (quasi) fratelli, sorelle.

Ed allora io non sono più Barbara…

Un momento…ma se io, ancora oggi, venissi qui con la squadra della mia città, le teste quadre ed i colori granata e, in un’umida domenica padana, mi recassi allo stadio urlando “BAGOLI”, alludendo volgarmente alla presunta superiorità parmigiana e pretendessi pure che la mia squadra potesse vincere la partita non mi troverei nuovamente in uno stato di forte conflitto? Che potrebbe diventare ingovernabile, violento. E magari giù botte, e spargimento di un po’ d’odio, che tanto quello ogni tanto in qualche modo deve uscire. E non sarebbe la prima volta. Provocato, si dirà.

Del resto, per la par condicio, analoga sorte avrebbe chi con i tifosi parmigiani osasse, di gialloblù vestito, arrivare al Giglio gridando “Reggiani di merda”.

Ohibo’, proprio non si potrebbe sopportare simile oltraggio agli eredi del Tricolore…

Ah, mi si dirà ancora, ma è lì e solo lì, nel calcio, che oggi il popolo bue sublima e si sfoga, simula il conflitto armato, la primordiale lotta dell’uno contro l’altro. E allora tutto è permesso, allo stadio.

Beh, se è così…facciamo che per un po’ diventiamo tutti barbari e non se ne parla più.

Però, che bello scaricarsi, sbatacchiarsi per un po’ e poi tornare amici.

Ma se il giorno dopo dovessimo trovarci a Bologna per spartire un mucchietto di soldi?

Sempre pochi per carità, rispetto a quel che vorremmo e secondo noi potremmo. O addirittura a decidere chi potrebbe ospitare una grande infrastruttura, chiamiamola ipoteticamente Alta Velocità, o TIBRE, o Chissàcome, che magari potrebbe (potrebbe) darci lustro e forse soldi ( SOLDI!) e potere (POTERE !) che cosa diremmo? Non potremmo certo girarci gentilmente verso i nostri vicini e dire “prego accomodati, fai pure, sarò felicissimo se lo sarai anche tu”. No, no.

Per la nostra città, per il nostro prestigio, per i nostri sogni di potenza ingaggeremmo (saremmo costretti ad ingaggiare) una lotta senza quartiere fatta di argomentazioni, ragioni fondatissime, interessi da rappresentare e difendere, convenienze, visioni e molto altro.

Una lotta diversa, per carità, da quella delle guerre precedenti ed anche dagli scontri da stadio, ma ugualmente feroce, l’un contro l’altro armati.

Una lotta fatta di discorsi animati, opposizioni, pressioni o persino intimidazioni, di colpi alti e bassi, a volte dati proprio a caso, ma pur sempre duri. Capaci di lasciare, con qualunque soluzione, frustrazioni, rancori, voglia di rivincita, o, peggio, di vendetta. I protagonisti ancora incapaci di vedere possibili alleanze profonde e vere, nuove interazioni tra persone e città, cadute di muri fisici o sedimentati negli animi (i più pericolosi), superamento di confini che il creato ed il paesaggio non conoscono e di cui la storia umana ha mostrato il tragico potenziale.

Allora ho sognato di chiamarmi Emilia.

È accaduto in particolare da quando nella capitale dell’Unione Europea ho potuto parlare della mia terra come luogo rispettoso delle persone e dei loro diritti, dei servizi e dell’economia a produzioni diffuse, di un benessere conquistato a fatica da generazioni di lavoratori ed imprenditori, della forza e dei sogni delle donne, delle scuole più belle del mondo, della civiltà cresciuta attorno alla convivialità, al buon cibo ed alle produzioni tipiche.

E, ancora, della Resistenza, della lotta dei partigiani e purtroppo degli eccidi, delle torture, delle immancabili vendette…

E della ricostruzione nella pace, della sofferta pacificazione praticata.

Immediatamente alcune cose mi sono state chiare.

Ad esempio che in qualsiasi capitale europea, e ancor più mondiale, le città della via Emilia appaiono così simili da essere percepite come un tutt’uno, che i loro destini sono sempre più intrecciati, nel bene e nel male, che le loro piccole beghe e rivalità fanno sorridere e non possono essere comprese. Che i loro confini da lontano non si vedono e dei loro fiumi importano ormai soprattutto la qualità delle acque, o le piene periodiche le quali, non avendo più lo spazio vitale per portare fertilità, possono portare rovine.

Mi è stato allora ancor più chiaro che la “civiltà” di queste nostre città mentre viene riconosciuta ed amata, è purtroppo immediatamente negata: da una macchia rossastra che incombe sui cieli che non possono più trovare l’azzurro, da quelle macchie grigie di cemento armato che si sono allungate, decuplicate nell’arco di pochi decenni ed hanno divorato il verde delle campagne, il ricamo delle viti, i filari degli alberi e sono diventate mostriciattoli, “non luoghi” dove si consumano nuove alienazioni.

Le città emiliane sono ancora piene di fascino, ma come non vedere quanto si siano allungate l’una verso l’altra più che per incontrarsi ed abbracciarsi, per possedere nuove porzioni di territorio, per ancora sfidarsi. Come un tempo con le armi, oggi con i piani regolatori.

Finendo poi col generare manufatti loro malgrado vuoti di destinazione d’uso, di relazioni, di calore e di persone, di significato.

Mentre centri storici carichi di senso, di memoria, di arte, si svuotano di “ commerci, arti e mestieri”, di famiglie e di vita per diventare contenitori di passaggi frettolosi più o meno festaioli.

Ed in quei centri, dove le comunità presero vita e si diedero le regole del rispetto reciproco, della partecipazione, delle decisioni condivise, di quella magnifica ed insostituibile parola che è diventata “democrazia“, si consumano oggi nuove solitudini ed incomprensioni, si formano marginalità paure ed insicurezze. Si alimentano periferie territoriali, culturali, sociali, economiche.

Nel cuore della civiltà, nelle sue belle città, si sono formate crepe profonde che le celebrazioni ed i rattoppi, i maquillage non coprono.

Ho sognato, con tanti altri, una nuova Emilia.

Che mai potesse confondersi con l’orrore di Aemilia, che sapesse reinventarsi la propria civiltà senza paura di perdere quella costruita.

Ci sono ancora, da qualche parte, progetti che parlano di visioni unitarie, aperture, forti collaborazioni, interazioni, superamento di modelli ripetitivi ed omologanti. Di corridoi ecologici, trasporti su rotaie, qualità dei paesaggi. Di centri di ricerca, scuole e servizi per la salute, produzioni ed istituzioni culturali cooperanti ed integrati. Di convivenza tra diversi, costruzione di nuove comunità. E di molto altro, per città emiliane unite, protagoniste dell’Europa che sa cambiare innanzitutto se stessa.

I sogni a volte appaiono precoci, se pur tardivi.

Possono perciò finire in un cassetto, perché non compresi, o strenuamente contrastati da chi ne teme la portata, perché sa che potrebbe finire il proprio dominio.

Ma quando essi sono molto belli e diventano condivisi, possono riprendere la propria strada, mostrarsi in nuove forme, con nuovi protagonisti.

E divenire così alti che persino l’Angelus Novus, girandosi, possa vederli in mezzo alle macerie.

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