Da studente a docente: una prospettiva sulla didattica a distanza

di Giuseppe Turchi – Era l’autunno del 2013 quando il dipartimento di Filosofia dell’Università di Parma introduceva per la prima volta le lezioni in modalità blended. Ricordo che, per realizzare ciò, il piccolo spazio dell’aula A2 era stato dotato di due webcam, una che puntava sul docente, l’altra sul pubblico, e di un microfono. Per gli studenti si aprivano così nuove opportunità di frequenza, dal partecipare da casa con la possibilità di intervenire in diretta al guardare le lezioni registrate in differita.

In quel periodo vivevo nello studentato di Via Volturno, per cui non ho approfittato del nuovo mezzo, preferendo sempre seguire in presenza. L’anno accademico successivo, però, sono tornato tra le mie colline solignanesi, a 40 km dalla città, e la didattica a distanza si è rivelata una grandissima alleata. Grazie a essa ho potuto seguire persino le lezioni di due professori dell’Università di Ferrara, ateneo tuttora consorziato con quelli di Parma e Modena-Reggio Emilia.

Nonostante nella mia zona la connessione fosse lenta, non ho avuto problemi a partecipare e sono sempre riuscito a prendere appunti dettagliati. Certo, mi sarebbe piaciuto molto di più essere presente, ma il fatto di risparmiarmi lunghi viaggi rappresentava un vantaggio in termini sia di tempo, che di denaro, che di fatica. All’epoca, infatti, alcuni problemi fisici mi rendevano piuttosto difficili gli spostamenti. Sacrificare un po’ di socialità, di prossemica e di contatto diretto era quindi un dispiacere lautamente compensato dalla consapevolezza di avere più tempo per studiare, per “andare avanti”, per rispettare le scadenze degli appelli.

In questo senso, si può dire che la didattica a distanza è andata e va incontro ai bisogni di un mondo che mette sempre più fretta, forse persino incentivando quella problematica contrazione dello spazio-tempo che si sta imponendo nel nostro orizzonte cognitivo. Al netto di ciò, la DaD sembra comunque offrire un valido aiuto nel caso di disturbi fisici e motori, permettendo virtualmente a tutti di non restare indietro in caso di malattia. Oggi, per esempio, sappiamo che, nella scuola dell’obbligo, è prevista la bocciatura qualora un allievo maturasse assenze per più di un quarto delle ore totali in un anno. Certo, il D.P.R. 122/2009 prevede delle deroghe per, esempio, motivi di salute, ma la didattica a distanza consentirebbe con relativa semplicità di non perdere troppe ore, il che è un assoluto vantaggio.

Se da studente ho lasciato la didattica a distanza con un parere tutto sommato positivo (l’ho sfruttata anche per effettuare i corsi introduttivi sulla sicurezza), la mia visione è molto cambiata una volta assunto il ruolo di docente. Mai avrei pensato che una pandemia avrebbe costretto la scuola italiana a utilizzare quella modalità che era stata offerta come un “di più”, uno strumento inclusivo (penso non solo ai fuori sede e ai malati, ma pure agli studenti lavoratori), per salvare l’anno di tutti gli studenti della scuola dell’obbligo – e per consentire a quelli dell’università di laurearsi. Anche sotto questo aspetto, il vantaggio è stato innegabile, ma numerosi problemi sono sorti nel frattempo.

Io ho vissuto l’emergenza covid 19 dalla prospettiva di un docente di sostegno, in un istituto tecnico, con contratto precario di appena sette ore settimanali. Una situazione che definirei “privilegiata” perché il mio studente non solo aveva una difficoltà di lieve entità, ma anche perché egli è stato il più rigoroso e responsabile dell’intera classe. Sempre presente e puntuale, lui non è mai ricorso a sotterfugi per sfuggire alla lezione, né ha mai avuto problemi tecnici di alcun tipo, laddove invece ho saputo di casi molto gravi in cui gli alunni certificati non solo non disponevano delle dotazioni informatiche, ma non erano nemmeno in grado di utilizzarle autonomamente. Arrivare ai più deboli, insomma, s’è rivelato forse il maggior problema della didattica a distanza. Ma non è stato che uno.

Vi sono state questioni di privacy per le quali non s’è potuto imporre allo studente di attivare la webcam, il che ha ridotto la piattaforma online a una schermata di sigle parlanti. Non facendosi vedere, gli alunni hanno potuto copiare e/o fingere di seguire, disperdendo ancora di più la loro già fragile concentrazione. Quando sono stati interpellati di sorpresa, i 5-10 secondi di attesa prima della risposta hanno più volte tradito la loro assenza, così come domande del tipo “A che riga siamo?”. In un caso sono arrivato persino a percepire la musichetta di avviamento di una Playstation. In tali contesti la lezione ha finito per ridursi a un insegnamento frontale vecchio stampo dove il docente ha parlato senza nemmeno la certezza che dall’altra parte vi fosse un ascoltatore.

L’ambiguità della normativa d’emergenza, interpretata dai giovani come un “tutti promossi”, e la mancanza di vere strategie per la somministrazione di una DaD efficace hanno portato a un drastico calo dei rendimenti e della partecipazione. In tutto questo bisogna considerare anche le eventuali condizioni disagiate dei ragazzi – a causa delle quali molti potrebbero non essersi fatti vedere per vergogna –, il calo del morale, la percezione d’inutilità di tutto ciò che si stava facendo. Questo, ancora una volta, è andato a svantaggio dei più deboli, laddove i bravi, vuoi per capacità personali, vuoi per senso del dovere, ne hanno risentito in minor misura.

Nel passare da studente universitario a docente di liceo, la mia prospettiva sulla didattica a distanza si è quasi capovolta, portandomi a riflettere sulle differenze tra le due situazioni. Da una parte individuo certamente il problema legale-burocratico dato dal fatto di trattare con dei minorenni, dall’altra la radicale differenza di motivazione. Lo studente universitario, infatti, è generalmente in grado di auto-motivarsi. Nessuno gli ha imposto quel percorso, e le conseguenze di una sua eventuale intemperanza gli sono note. Le idee di lavoro, di autonomia, di realizzazione cominciano ad avere un peso importante nel suo progetto di vita. Ma lo stesso potrebbe valere per gli adulti che vorrebbero conseguire il diploma per migliorare la loro situazione, magari padri e madri che devono provvedere al sostentamento di una famiglia. In tutti questi contesti l’urgenza, assieme alla passione, alimenta sia la motivazione che il senso del dovere, ed è proprio qui che la DaD si dimostra piuttosto efficace.

Ma nei più piccoli? È possibile motivare gli allievi in un contesto che si riduce in gran parte a voti e verifiche? È possibile pretendere che gli adolescenti abbiano un marcato senso di responsabilità, quando questo dipende essenzialmente dal contesto in cui sono cresciuti? Il docente dovrebbe forse imparare a essere anche un intrattenitore-psicologo? O dovrebbe avere il potere di correggere e imprimere il senso di responsabilità in quelli che, sfortuna loro, non lo hanno maturato? Questi dilemmi non sono certo nuovi, ma la DaD li ha riproposti con una certa violenza.

Carico di queste domande irrisolte, di fronte alle quali provo un certo senso d’impotenza, attendo preoccupato la ripresa delle lezioni. Perché se la DaD in tempi di emergenza è il male minore possibile, è anche vero che, così impostata, rischia sia di compromettere il già traballante percorso di una buona parte di studenti, che di frustrare i docenti.

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