Cura, prossimità e distanze

di Maria Inglese 1 La pandemia da coronavirus ha rappresentato un evento-spartiacque in vari ambiti del vivere comune: ha portato lutti, malattie e ferite in diversi nuclei familiari, ha investito il sistema di assistenza sanitaria del nostro territorio impattando soprattutto sui presidi ospedalieri, ma anche sui sistemi di cura e di assistenza territoriali, ha condizionato la tenuta dei legami sociali, il sistema produttivo, l’educazione, la cultura. Si potrebbe usare, a questo riguardo, l’espressione di cambiamento drammatico del Sé’ (Ceretti e Natali) 2, una definizione usata in ambito psicologico per descrivere dei cambiamenti improvvisi e profondi della struttura dell’individuo (quali, ad esempio, una esperienza di violenza o un trauma psicologico); applicato al contesto comunitario e sociale si manifesta con un impatto emotivo violento su famiglie, sui gruppi di lavoro, imprese, aziende, scuole. La comunità è stata ferita e, passata la fase dell’emergenza, diventa necessario occuparsi del ‘dopo’, del ritorno ad una dimensione routinaria, normale. Sapendo che esiste un ‘prima ed un dopo’, che la vita di prima non ritornerà, che la tenuta dei legami e dei patti sociali sono destinati a modificarsi per quanto successo. Nei giorni che sono seguiti all’emergenza si fa più urgente individuare quel ‘dopo nell’ora’ 3.

Occorre riflettere ora su ciò che ci ha lasciato il periodo della pandemia e quello della cura, nonostante la pandemia, ‘oltre la pandemia’ 4. Occorre riflettere su come si è organizzata la nostra professione della cura in tempo di pandemia e di distanziamento. Occorre, infine, ripensare alla nostra come una professione che non rimane in attesa, nelle stanze, negli ambulatori o dentro le case in smart working. L’operatore della cura si attiva anche nel tempo del distanziamento, e solo attivandosi riesce ad attivare l’altro. In questo modo l’operatore della cura diventa una testimonianza viva della capacità di sopravvivere psichicamente nel tempo della sofferenza.

C’è bisogno di rinnovare il patto fiduciario tra umani feriti, stanchi, segnati. Come scrive Luigino Bruni (economista e teologo, sulle pagine de L’Avvenire del 31 marzo 2020): «Il contratto non è capace di dimenticare le parole di ieri per generarne di nuove; il patto si, e se non lo fa muore in quanto patto».

C’è bisogno di dare ascolto e accoglienza alla paura di quei giorni maledetti sovraccaricati di morte, fatica. Scrive Ivo Lizzola (intervista del 30 marzo 2020): «La paura è un pericolosissimo motore di conflitti e di difficoltà nel rapporto con l’altro, quando non ha luoghi per passare dentro la parola e l’incontro. Ci si sente così esposti da rendere cieca anche l’evidenza che c’è chi è molto più fragile di noi, verso cui è giusto essere più attenti. La paura vissuta da soli, ci avvelena. Passare dalla paura alla veglia reciproca è possibile, ma ci vogliono dei percorsi di accompagnamento, di pedagogia sociale. Se non lo facciamo, rischiamo di impedire la costruzione del dopo».

C’è bisogno di ‘restituire’. Restituire al personale sanitario impegnato nell’emergenza della pandemia un tempo di ascolto, restituire un abbraccio solidale, restituire un patto di convivenza capace di non allontanare la paura e le esperienze di morte vissuti. Per restituire anche alla paura la sua posizione: quella di ricordarci che siamo tutti vulnerabili e tutti fragili di fronte al male, come ci ha ricordato Papa Francesco nella preghiera sul sagrato di piazza San Pietro vuota e battuta dalla pioggia il giorno 27 marzo: «La tempesta si è abbattuta su di noi…siamo tutti sulla stessa barca».

La cura, oggi

La cura è tormento. La parola deriva dal latino e significa sollecitudine, grande e assidua diligenza, vigilanza premurosa, assistenza, grave e continua inquietudine. Il professionista declina operativamente tale definizione di cura e, nel periodo della pandemia, è stato forzato a ritrovare nel proprio ‘mestiere’ (o arte per qualcuno) tale visione. I gruppi di lavoro di tanti servizi della cura hanno imparato a ‘stare in sicurezza’ nel tempo ‘sine-cura’ quale è stato quello della pandemia. Operatori e colleghi che condividono una visione e una pratica quotidiana, normalmente si trovano fianco a fianco a fronteggiare le richieste e i bisogni della comunità, ed esperiscono un senso di ‘sicurezza’ mentre forniscono ‘cura’. Essere separati, come nel tempo del distanziamento, ci rende più vulnerabili, più ‘in-sicuri’. Essere operatori del Dipartimento di salute mentale della città ci permette di fare affidamento su conoscenze e prassi condivise, su un ‘sapere e un saper fare’ che ci appartiene e ci identifica. Francesco Stoppa scrive: «La sicurezza in quanto tale non produce salute. Sentirsi sicuri è la condizione di chi è sine cura, di chi in sostanza non ha alcun interesse al prendersi cura delle cose o delle persone, chi delega ad altri questa incombenza, questo tipo di responsabilità» 5.

La cura è nel gruppo. Di fronte alla paura che il tempo della pandemia ha seminato nei soggetti, l’appartenenza ad un gruppo ha fornito il sollievo, momentaneo, fragile e tremante, di un ‘essere insieme’, rispondere insieme, non lasciare l’altro da solo. Nell’équipe si condividono informazioni, si scambiano conoscenze e dubbi, si incrocia lo sguardo di colleghi alla ricerca di alleanze. Senza alleanza non c’è cura, non c’è affidamento, non c’è trasformazione. I pazienti in noi cercano quello sguardo, capace di trattenere fiducia e speranza anche in condizioni estreme. Nina Coltart scrive che «saper sopravvivere come terapeuti» rappresenta una testimonianza preziosa per il paziente 6. Il paziente, infatti, cerca il riconoscimento al suo tentativo di sopravvivere; il terapeuta apprende con il paziente che si può sopravvivere al dolore e testimonia che crede nella trasformazione perché anche lui in prima persona la sperimenta. Come posso io favorire un cambiamento e una evoluzione se non sono certa della mia capacità di cambiamento? 7

Prossimità ‘senza’

Il lavoro nei servizi di cura del territorio per molto tempo e per molti è stato un lavoro “senza”. Senza pazienti, almeno nelle prime settimane dalla diffusione del contagio. Le notizie e le testimonianze sono state e sono al centro della narrazione del paese: medici, infermieri, operatori socio-sanitari sono diventati i protagonisti di questo tempo della cura. Enfatizzando le posizioni: eroi e responsabili della diffusione. Il bene e il male. Luci e ombre. In questo tempo del Covid ‘siamo tutti colpevoli e tutti vittime’, paradossalmente: possibili contagiati e possibili diffusori del contagio. I servizi hanno affrontato un periodo di incubazione, sospensione e direi di smarrimento: «Ora, che cosa facciamo? Ora che i pazienti sono invitati, come tutta la popolazione, a rimanere a casa? Il lavoro di cura è possibile ‘senza’ la presenza fisica degli attori coinvolti? Senza l’incontro dei corpi?» Penso che ogni servizio abbia dovuto fare i conti con la materializzazione di un vuoto e di una assenza. Gli unici incontri, almeno all’inizio della pandemia, erano ‘tra’ colleghi dello stesso servizio. Curare noi stessi e curarci a vicenda. Dopo questa prima fase di assenza abbiamo cominciato a riorganizzare il lavoro a ‘distanza’: telefonate, video-chiamate. Una quotidianità che entra negli ambulatori, il luogo di vita delle persone che entra nel setting (come è successo per la scuola in remoto che ha visto studenti ed insegnanti incontrarsi dalle proprie case). Questa è stata ed è una fase molto promettente: ci permette di entrare nelle case, negli spazi e nei tempi di vita dei nostri pazienti. Che opportunità! E che dilemma! Nel setting terapeutico la cura “senza” la presenza del corpo diventa una sfida ai dispositivi e agli attrezzi del clinico. È possibile curare/accompagnare anche in questa fase del distanziamento? La risposta agli operatori 8.

Nelle ultime settimane i pazienti sono tornati ad abitare i luoghi della cura: ospedali, PS, residenze terapeutiche e ambulatori. In questi ultimi il paziente entra dopo un filtro, un triage, sulle sue condizioni di salute, esposizione al rischio di contagio, misurazione della temperatura, lavaggio delle mani, consegna dei dispositivi minimi di protezione individuale (mascherina e guanti). Misure di distanziamento nei colloqui. Nessun contatto fisico. Sanificazione dell’ambiente. Quanto tutto questo impatterà sui vissuti di operatori e pazienti potrebbe essere materia per una ricerca. Ma un’altra domanda ci interroga: oggi chi sono i pazienti? Oggi siamo tutti pazienti, potenziali ‘nuovi pazienti’, perché tutti coinvolti. Pensiamo a quanti operatori a lungo impegnati nell’assistenza diretta ai malati delle terapie intensive chiedono aiuto agli sportelli di ascolto psicologico-psichiatrico delle aziende sanitarie.

Distanze

Siamo stati tutti sollecitati a praticare la nostra presenza nella distanza. La vita delle persone nella comunità di appartenenza diventa il soggetto inedito della nuova relazione ai tempi del distanziamento. Alcuni elementi di riflessione si aprono e sono degni di ulteriore approfondimento. Ma vorrei soffermarmi su un dettaglio del colloquio clinico che spesso ho incontrato in queste settimane. La ‘pausa’, nella telefonata e nel colloquio. La ‘pausa’ nel discorso è qualcosa di diverso dal ‘silenzio’ in terapia. Con questo ha in comune la possibilità di lasciarsi abitare dall’immateriale e dall’invisibile, ingredienti creativi del processo trasformativo della cura. Sempre la Coltart ci regala pagine molto intense sul valore del silenzio in psicoterapia 9. Su uno di questi voglio soffermarmi. Cioè il ‘dono’ per il terapeuta di lasciarsi andare alle proprie associazioni, immaginazioni, intuizioni. Nel silenzio questo è molto evidente. Nella ‘pausa’ trovo che vi sia una possibilità di immediata identificazione tra paziente e terapeuta: entrambi hanno attraversato le stesse paure, timori, fantasie di contagio («Dottoressa, lei ha paura?»). Stare nella ‘pausa’ apre a questo riconoscimento fraterno e solidale. Timori, incertezze, ma anche infusione di fiducia. Il lavoro di cura ai tempi del Covid attiva prepotentemente questa ‘fiducia’ nella capacità di sopravvivere sia per i pazienti che per i terapeuti. Nel distanziamento, nella telefonata, nel contatto da remoto è prioritario saper attingere alle nostre capacità di contenimento interiore, nel saper stare, nonostante e ‘oltre’ la paura. Per sopravvivere come terapeuti abbiamo bisogno di avere fiducia nella nostra capacità clinica, nel sapere cosa stiamo facendo, nel saper attendere e nel saper aspettare. Abitati dalle stesse emozioni, dalle stesse aspettative.

Come in ogni esperienza umana, c’è un tempo della semina. Ci sarà un tempo del raccolto.

Maria Inglese, Medico psichiatra dell’azienda USL di Parma, già responsabile dell’UOS Salute Mentale e Tossicodipendenza negli II.PP., attualmente referente del Centro Studi e Ricerca del DAISM-DP di Parma (minglese@ausl.pr.it)

Notes:

  1. Questo contributo nasce dalle riflessioni condivise con l’amica e collega Anna Ventimiglia, psicologa della NPIA di Parma, alla quale devo molte delle intuizioni che hanno portato a questo scritto.
  2. Ceretti A. e Natali L., Cosmologie violente. Percorsi di vite criminali, Cortina, 2009.
  3. «C’è bisogno di condivisione e apertura al mondo, c’è bisogno di conoscersi e parlarsi, siamo ‘unicum’. Il male è la disgregazione. Il ruolo psicoanalitico oggi, come lo è sempre stato, riveste un ruolo di ‘ricucitura’ dopo il ‘taglio’. E voi, curatrici dell’anima, rammendatrici di tessuti strappati, ‘dovete’ dar voce al silenzio. E’ presto? No! E’ già tardi. Il progetto è cura dell’oggi, è l’andare ‘oltre’ nell’esistente. La stanchezza è un velo trasparente che può offuscare la mente. C’è bisogno di ‘rigenerare’ la mente, attraverso una ‘espulsione’ mnemonica di immagini dolorose (e magari su fogli bianchissimi) per distanziarli e guardarli in una prospettiva diversa, ‘accompagnati’, una prospettiva curata». Devo questa riflessione ad AD, in uno scambio sul senso del lavoro di cura e del sostegno alle équipe di lavoro primariamente impegnate in ospedale nel tempo della pandemia.
  4. Ivo Lizzola (Università di Bergamo) ha usato questa espressione, ‘oltre la pandemia’, nel seminario svolto per Il Ruolo terapeutico di Milano, in data 8 maggio 2020.
  5. Cit. da Stoppa F., Prendersi cura delle istituzioni e delle comunità, in “La città si-cura”, L’Ippogrifo, 15, 2019.
  6. Coltart N., Come sopravvivere da psicoterapeuta, UTET, 1998.
  7. op. cit., p. 14
  8. Stiamo raccogliendo le testimonianze di operatori e pazienti su questo “stare con/stare senza” in uno studio condotto insieme alla dott.ssa Maria Teresa Gaggiotti del CSM est di Parma e alla psicologa in formazione dott.ssa Susanna Divita.
  9. Coltart N., Pensare l’impensabile e altre esplorazioni psicoanalitiche, Cortina, 2017.

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