Abitare la città: dotazioni, convivialità, salute comunitaria
di Marco Ingrosso
Coordinatore del Laboratorio Salute dell’Associazione Culturale “Luigi Battei”
Ripensare la città e la dimensione del quartiere
Durante il periodo della pandemia, oltre 500.000 cittadini hanno abbandonato New York a causa di un tasso di mortalità tre volte più alto del resto degli Stati Uniti. In generale, le grandi aree urbanizzate del mondo (compresa l’area metropolitana milanese-lombarda) hanno avuto tassi di contagio e di mortalità notevolmente sopra la media. Ciò in ragione della densità abitativa, dei tipi di insediamenti prevalenti (grossi condomini e grattacieli, ambienti chiusi, uso di ascensori), dell’uso massiccio di metropolitane e mezzi pubblici di trasporto, della strutturazione delle città in aree funzionali con grosse distanze da percorrere fra casa e lavoro, della carenza di scuole e servizi in diversi quartieri periferici, della sottovalutazione delle cure primarie e della scarsa integrazione fra ospedale e territorio.
Tale constatazione ha posto all’attenzione dell’opinione pubblica il tema dell’organizzazione della città e della sua vivibilità. Una prima rilevante proposta è venuta dal Sindaco di Parigi, Anne Hidalgo, che ha proposto di costituire la “Città dei 15 minuti”. La proposta propone di pensare ad una città fatta di tanti quartieri urbani integrati dove si mescolano residenza, luoghi di lavoro, attività commerciali, spazi pubblici e di divertimento. Quartieri dove tutte queste attività siano raggiungibili a piedi o in bicicletta (con percorsi dedicati) nel giro di 15 minuti.
Questo tipo di città rivitalizza i negozi di vicinato (che si sono dimostrati molto utili in epoca Covid) senza concentrare gli acquisti nei soli supermercati periferici e nei grandi centri commerciali. Questa scelta è integrata da limiti alla densità abitativa, da ampi spazi verdi, da incentivi al risparmio energetico delle abitazioni, da una ristrutturazione della mobilità nella prospettiva di costituire eco-quartieri misti che prefigurano un nuovo paradigma di “Citta Sana” e vivibile.
La scelta di una opportuna dimensione di quartiere, ciascuno dotato di una propria storia e identità, si confà particolarmente alle città medie italiane – come Parma – che non hanno del tutto perduto il proprio baricentro simbolico e la dimensione vicinale, così come vale per diverse aree del territorio provinciale – costituite da centri piccoli, medi e a residenzialità estesa – da ripensare in termini di poli urbani integrati dotati di infrastrutture di servizi opportunamente collocate e adeguatamente collegate. Questa organizzazione a rete, con propri centri operativi e identitari, richiede un significativo ripensamento programmatorio e progettuale territoriale.
Secondo Giaccardi e Magatti, il confinamento necessitato dal virus ha messo in scacco il due contendenti degli ultimi anni: globalismo e localismo: «Al contrario del globalismo, la globalità è intimamente legata al senso del limite. Alla forma, per usare la categoria di Simmel.[1]» In altre parole, abbiamo bisogno di confini e forme entro cui abitare, ma queste devono essere comunicanti e porose: di qui il concetto di “inter-indipendenza”, ossia di autonomia delle aree però connessa con le più ampie attività e vocazioni della città e del territorio (da pensare in modo strettamente interconnesso).
Il “locale” deve quindi avere una forma, un’identità, godere di una certa autonomia e autogoverno, costituirsi come spazio “abitato” dai residenti in termini di socialità e comunità, ma deve essere altresì interconnesso con più ampie entità territoriali (città, provincia, macro area, ecc.) e “aperto” a opportuni scambi di persone, di idee, di aggregazioni sinergiche collocate su vari piani della vita associata.
Rigenerare la vita di comunità: coordinare le politiche urbane, per la salute e la socialità
Fra le infrastrutture centrali e necessarie di un quartiere si devono considerare le scuole, i parchi, le piazze e i luoghi d’incontro, la mobilità interna, i servizi, ma soprattutto ciò che riguarda la salute, la sanità, la vivibilità ambientale. Questa indicazione emerge, fra l’altro, dal Manifesto “La salute nelle città: bene comune” promosso dall’Health City Institute che dichiara al primo di dieci punti: «Ogni cittadino ha diritto ad una vita sana ed integrata nel proprio contesto urbano. Bisogna rendere la salute dei cittadini il fulcro di tutte le politiche urbane.[2]» Seguono poi indicazioni che riguardano l’educazione e promozione della salute, l’attività fisica, gli stili di vita sani nei luoghi di lavoro, la prevenzione, l’inclusione sociale, l’ambiente urbano.
Dunque, insieme con l’assetto urbano e amministrativo, vi è l’esigenza di dotare i quartieri di sufficienti servizi e infrastrutture che tuttavia devono essere gestiti in modo tale da giocare un ruolo aggregativo e comunitario. Infatti la vita comunitaria e la partecipazione sociale hanno particolarmente sofferto nell’ultimo trentennio. Anche in una città come Parma, tradizionalmente nota per il suo tessuto associativo e solidaristico, se ne sono visti gli effetti di svuotamento, degrado, chiusura nostalgica[3].
Non sarà semplice trovare una nuova strada, che tuttavia il distanziamento imposto dalla pandemia ha reso ancora più desiderabile e urgente. La ricerca di nuove modalità di abitare la città e di incontrare l’Altro dentro i suoi spazi necessita, per tale ragione, non solo di infrastrutture, ma di progetti e politiche urbane e culturali, anche di medio periodo, capaci di coinvolgere la cittadinanza, specie nelle sue fasce giovanili: «Alla radice della crisi della vita comunitaria a cui ci è dato oggi di assistere vi è sicuramente un fondamentale dato culturale, ovverossia la fluidità del senso di appartenenza, che talvolta può essere anche profondo, ma che tende facilmente a raffreddarsi o a individuare nuovi obiettivi, idee e ideali. […] Le forme di aggregazione comunitaria che paiono funzionare sono perciò al momento […] quasi tutte funzionali e temporanee: il fare squadra per progetti a termine […] ci consente infatti di dedicarci con sincerità […] a realtà che ci interessano, ci convincono o corrispondono seriamente al nostro personale impianto di valori, lasciando però aperta la porta all’alternativa, alla possibilità di un dopo e di un oltre …»[4].
Questa “voglia di comunità”, per non essere velleitaria o destinata a risolversi in chiusure difensive (come rilevato da Bauman all’inizio degli anni duemila[5]), ha la necessità di ricercare una nuova “arte di vivere insieme”, come ha indicato il Secondo Manifesto convivialista[6], sviluppare una nuova cultura della cura e della fraternità, come autorevolmente sostenuto dall’enciclica Fratelli tutti e dalle proposte sulla fraternità “nel tempo dell’incertezza” offerte da E. Morin[7]. Tali rilevanti riflessioni, possono trovare nell’ambito della vita sociale e politica delle città e dei territori significative opportunità attuative.
Ricucire le reti sociali: la Casa della Comunità
Sicuramente il punto centrale di tale ripensamento deve essere quello della ricucitura delle reti sociali e di una nuova focalizzazione sulla dimensione di comunità locale, capace di sviluppare capitale sociale, forme attive di socialità e associazionismo, responsabilità e partecipazione alla vita collettiva. Senza una vita attiva e partecipata anche le scelte urbanistiche migliori possono restare scatole vuote, senza una vita propria.
Soprattutto la città e i comuni collocati a reticolo nel territorio provinciale devono diventare molto più abitabili e vivibili di quanto non siano ora per i bambini, per gli anziani, per chi ha disabilità. Da tempo sono state proposte nuove modalità abitative che affrontino le necessità della condizione anziana attraverso forme di condivisione intergenerazionale delle abitazioni (indipendent living, assisted living, co-housing). Anche forme di mediazione fra proprietari di appartamenti e potenziali affittuari “deboli” possono servire a costruire ponti fiduciari.
Queste forme dell’abitare possono coniugarsi utilmente con una generalizzazione dell’assistenza domiciliare integrata, con forme di prossimità dei servizi, con l’attenzione alla convivialità, favorita da spazi d’incontro e di transito sicuri, mentre gli spostamenti dedicati e protetti possono favorire il percorso casa-scuola dei bambini e la loro presenza nel tempo libero nelle aree opportunamente attrezzate del quartiere. I nidi e le scuole d’infanzia possono diventare luogo d’incontro delle giovani famiglie, dove la presenza del pediatra può aiutare e rassicurare. L’associazionismo e le altre esperienze di aggregazione nei quartieri, dopo l’evento Covid che le ha duramente penalizzate, dovranno essere aiutate a ricostruire le loro reti sociali e solidaristiche. Esempi fra mille di una rinnovata azione ricucitiva delle reti e di sviluppo del capitale sociale che dei nuovi centri di quartiere dovrebbero portare avanti per ricostruire il tessuto di socialità e qualità della vita nei territori.
A fare da baricentro a questa rivitalizzazione della socialità di quartiere dovrebbero essere delle nuove Case della Comunità che costituirebbero non solo un contenitore di servizi sociali e sanitari, ma un luogo base di attività preventive, di promozione della salute, di aggregazione, di attivazione e partecipazione della comunità di quartiere, con una netta presa di distanze da paradigmi urbanistici basati su grandi dimensioni e specializzazioni funzionali delle città. Tali Case della comunità dovrebbero godere di autonomia amministrativa ed essere gestite da comitati istituzionali in cui sia garantita la partecipazione della popolazione residente e dell’associazionismo. Si tratta quindi di superare il paradigma basato sulla sola risposta sanitaria di base (come molte delle attuali Case della Salute) per una visione che abbia al centro la convivialità, la salute comunitaria, l’assistenza socio-sanitaria, con una particolare attenzione a tutte le situazioni di fragilità, verso cui operare in termini di domiciliarità, prossimità e personalizzazione dei budget di salute.
Quartieri con simili dotazioni, rigenerati con adeguate politiche e reti associative, svilupperebbero un’alta qualità di vita, responsabilizzata per la buona gestione delle dotazioni e dell’ambiente urbano, che, a sua volta, stimolerebbe un’alta qualità dei servizi sociali, sanitari, educativi, ambientali, attivando circoli fiduciari e virtuosi che l’attuale divisione del lavoro specialistica e funzionale ha messo in scacco.
Si tratta dunque di pensare nei termini di un nuovo orientamento urbanistico e sociale che connetta vivibilità, abitabilità, socialità conviviale, multidimensionalità e qualità dei servizi che andrebbero a costituire comunità locali di dimensione di zona e di quartiere, federate, a loro volta, in città e territori connotati da specifiche identità culturali e vocazioni produttive. Per questa ragione, il progetto di una nuova tipologia di Casa della Comunità diventa strategico per il ripensamento e il rilancio della città e del territorio parmense. La crisi del Covid può diventare un nuovo inizio di una comunità della cura!
- C. Giaccardi e M. Magatti, Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo, il Mulino, Bologna, 2020, p. 68. ↑
- https://healthcityinstitute.com/manifesto/ ↑
- V. A. Bosi, Il caso Parma, Battei, 2012 e S. Manghi, Partecipare stanca, Battei, 2016. ↑
- R. Larini, Ripensare la comunità, in Rocca, 08, 15 aprile 2021, p. 33. ↑
- Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari, 2001. ↑
- Internazionale convivialista, L’arte di vivere insieme. Secondo Manifesto convivialista, Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Milano, 2020. ↑
- Papa Francesco, Lettera enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale (http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html) e E. Morin, La fraternità, perché, Ave editrice, Rome, 2020. ↑
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