Dialogando con Roberto Favilla

di Alessandro Bosi

Caro Roberto, 

ti ringrazio della considerazione che riservi al mio articolo (vedi link).

Alla tua prima osservazione rispondo che, sulla definizione di vivente fornita dalla biologia, ho solo da imparare. E ugualmente chiara e condivisibile è la distinzione tra biologia e bioetica. Ma le tue osservazioni riguardano il campo analitico, non quello della vita pratica che è il mio riferimento. 

Da quando abbiamo acquisito la consapevolezza, che non avevano i nostri più lontani genitori, della relazione tra sessualità e fecondazione, ci comportiamo, nell’attività sessuale, tenendone conto; indipendentemente dal fatto di sapere se spermatozoi e ovuli sono viventi. Le stesse questioni di bioetica, che subentrano nella eventualità di decidere per un’interruzione di gravidanza, non interferiscono con la vita sessuale ordinaria. Dovendo prendere una decisione a questo riguardo, le conoscenze analitiche sono soppesate insieme a numerosi altri fattori e, talvolta, con l’intervento di pareri formulati da soggetti diversi.

All’altro capo della vita, la bioetica fornisce ancora un quadro analitico dal quale l’individuo trae conoscenze utili per prendere decisioni sulla sua vita o su quella dei suoi cari. Ma la deliberazione in base alla quale agisce, attiene a una complessità irriducibile al piano analitico. 

Nel mio articolo mi riferisco alle situazioni in cui siamo nella necessità di decidere, come ho scritto. Il più delle volte, queste condizioni non dipendono soltanto dal nostro individuale parere, che può certo essersi formato sulla base di conoscenze analitiche, ma anche dai pareri di altre persone di cui riteniamo di dover tenere conto. Nella deliberazione, non dirò che le nostre conoscenze analitiche siano irrilevanti; semplicemente non sono le sole che utilizziamo. Il piano analitico non è esclusivo né decisivo. Disgiunto da quello dei comportamenti, è come la grammatica separata dalla lingua. Di essa, e dei dizionari, si disse che sono il cimitero della lingua.

Sulla seconda domanda, ammetto che la tua ipotesi è fondata: il passaggio da raccoglitore-cacciatore ad agricoltore-pastore potrebbe aver deciso il nostro futuro più di quanto non abbia fatto l’avvento della città. Non credo esistano argomenti per poter sostenere che un’ipotesi è più valida dell’altra. Posso dirti per quale ragione sostengo l’importanza della città. Con l’agricoltura e la stanzialità, gli umani hanno confermato l’adeguazione al paesaggio. Le case contadine hanno sostituito le tende, adattandosi ovunque nel mondo alla morfologia e ai colori della terra. Il legame al sangue, alla terra, alle radici, alla quercia, alle stagioni, al culto delle divinità ctonie conducono il contadino a un processo d’identificazione con Madre Terra. La rottura col passato nomade è rilevante nel sistema produttivo, ma non comporta una distanza rispetto al paesaggio e alla terra che rimangono centrali nella vita degli individui e delle collettività.

I processi di urbanizzazione che cementificano il territorio, mettono alle porte il paesaggio e introducono un dualismo concettuale e comportamentale tra città e campagna. Per questo, credo che l’avvento della città segni la massima frattura storica degli umani dai viventi non umani.

Scrivi poi che Socrate ha peccato quantomeno di omissione nel sottovalutare l’importanza della campagna come luogo da cui e in cui l’uomo potesse imparare molte cose. È così. Di fatto la filosofia, che guardava al cosmo e alla natura, con Socrate assume l’uomo come riferimento. Solo con la modernità classica torneremo a interrogarci sulla natura e solo oggi, come anche tu suggerisci, siamo chiamati a rifare i conti con quella linea di progresso come del resto alcuni ‘eretici’ ci avevano invitato a fare in passato. Sono d’accordo con te su questa esigenza. E sono d’accordo anche quando scrivi che l’ospitalità come reciprocità all’interno di rapporti simmetrici tra ospitanti e ospitati non si è mai realizzata. Si è infatti perseguita l’accoglienza asimmetrica in luogo dell’ospitalità simmetrica muovendo da una logica di assistenzialismo riservato al singolo in vista di processi d’integrazione e inclusione sociale funzionali alla macrodimensione di città smisurate. La conseguenza è che il puro assistenzialismo ha continuato a trattare come fossero processi migratori otto e novecenteschi, fenomeni di più ampia portata che definiscono una nuova geografia umana del globo.

Pretendiamo di immettere nelle scatole degli Stati nati per contenere popolazioni omogenee alla loro storia, genti di provenienze diverse trattandole come individui dei quali dovremmo soddisfare i bisogni primari (cibo, salute, casa, istruzione, lavoro). Sono piuttosto necessari nuovi contenitori in grado di far interagire culture diverse. L’integrazione dei singoli né si realizza, né è auspicabile perché avviene comunque per processi di sottomissione che preparano sentimenti revanscisti. L’ospitalità e l’interazione, basata sulla contrattazione sociale e sulla comunicazione fra le diverse culture, presuppone città dotate di una misura. Da molti anni le città crescono senza alcun criterio come formazioni cancerose. L’ho scritto nell’articolo di cui stiamo parlando e lo ha scritto in Prospettiva anche Antonio Balzani.

Ora, il coronavirus ci sta imponendo scelte che comportano l’adozione di severe misure. Mi auguro che l’eventuale arrivo del vaccino (che ovviamente auspichiamo) non archivi questo fervore. In ogni caso sottolineo che le città italiane per conformazione geografica e per storia sono le più adatte a realizzare forme di ospitalità e interazione sulla base di una misura definita attraverso precisi criteri. E ricordo che la scuola italiana ha praticato forme di educazione interculturale molto più avanzate degli altri paesi che hanno invece adottato criteri rigidamente integrazionisti. Ma qui usciremmo dal seminato.

Mi chiedi poi perché uso il termine tutti con riferimento ai diritti. Ti rispondo: perché le nostre carte costituzionali e i nostri pronunciamenti solenni grondano di questa parola che esprime un proposito il più delle volte irrealizzato. Il lavoro è un diritto riconosciuto a tutti e lo è la salute e l’istruzione e il diritto al voto. Ma tutti non è un’eterna categoria dello spirito. Nell’antica Grecia, come hai ricordato, non riguardava gli schiavi e le donne. Nell’Italia del Novecento, le donne hanno lottato per ottenere le pari opportunità  e ancora devono lottare perché il diritto acquisito sia rispettato. Tutti è la parola più adatta se avvertiamo in essa il respiro della vita che cambia e guarda a chi ne è escluso. È una parola inadatta se archivia il divenire della storia in un concetto ipostatizzato. Forse che il lavoro lo abbiamo garantito a tutti in qualche epoca e in qualche paese del nostro passato? E ora che vi sarebbero nuovi soggetti ai quali riconoscere un lavoro, si usa come pretesto il fatto di non averlo riconosciuto a tutti i nostri per dire che non si vorrà riconoscerlo agli altri.

Da ultimo mi chiedi di essere meno ermetico nel citare M. Thatcher quando sosteneva che la società non esiste. Non aveva tutti i torti, in effetti: la società non esiste dove non esiste una città che sia la dimensione quotidiana del vivere sociale. Nella macrodimensione, i rapporti rarefatti tra le istituzioni non conoscono la vivezza dei rapporti sociali e la solidarietà delle genti: per rintracciare sentimenti strappaconsensi il populismo si rifugia allora nella sfera privata e nella simbologia religiosa. La mancanza di società si sposa, come sempre, col cuoricino piccolo.

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