Alcune riflessioni sull’articolo “Città e civiltà” di Alessandro Bosi

di Roberto Favilla

Caro Sandro,

essendo rimasto bloccato a lungo in Sardegna a causa del coronavirus e non disponendo di un portatile, non ho avuto né la comodità né diciamo pure la serenità di rispondere prontamente al tuo articolo “Città e civiltà“ uscito sul numero 1 di Prospettiva, pertanto mi scuso se colgo solo ora l’occasione per farlo, essendo finalmente riuscito a tornare a casa. Premetto che non avendo particolari competenze sul tuo argomento preferito, la Città, temo che le mie osservazioni potrebbero risultare un po’ banali. Ciononostante, pur consapevole del rischio, ne ho chiesto la pubblicazione perché, avendo partecipato ad alcune riunioni dei gruppi Clima e Salute di AN2020, ritengo che possano stimolare ulteriori approfondimenti sugli argomenti da te trattati.

Dal Paragrafo “Appartenenza e distanza”

Quando scrivi che la definizione di vivente non è così netta: “Queste, le caratteristiche attività che riconosciamo ai viventi, si direbbero scritte sull’acqua, ogni volta ci troviamo di fronte alla necessità di decidere sulla nascita o sulla morte di una persona. I nostri dilemmi in quelle drammatiche circostanze sono un indizio di quanto siano fragili le convinzioni che abbiamo su cosa si debba intendere per ‘vivente’ e cosa cerchiamo oltre i suoi confini.”, mi sembra che tu sovrapponga due concetti diversi: uno riguarda la definizione di vivente, l’altro il giudizio morale sul vivente. Certamente si tratta di argomenti delicati, ma non bisogna confondere la biologia con la bioetica. La biologia definisce come vivente qualunque struttura dotata di organizzazione cellulare funzionalmente attiva, dunque sia l’embrione che il paziente in coma irreversibile o comunque terminale appartengono al vivente. Dunque anche gli spermatozoi e gli ovuli sono viventi, sebbene incompleti dal punto di vista delle capacità di generare un individuo. Diverso è il discorso per l’ovulo fecondato, perché in questo caso siamo in presenza di un individuo, anche se non ancora completamente sviluppato, ma se è per questo neppure un neonato lo è. In questo case, come in quello del soggetto sofferente o incapace di decidere, la bioetica ha il diritto di intervenire, per stabilire se sia lecito o meno disporne, ed eventualmente in che modo, vuoi da un punto di vista morale o di convenienza sociale, tenendo presente che la legittimità delle decisioni dipende sia dal contesto sociale che dal momento storico, dunque mai definitiva.

Quando scrivi su ciò che maggiormente ci distingue dagli altri viventi: “…Fra queste, più d’ogni altra, la fondazione della città ha segnato la nostra distanza dai viventi”, io ritengo piuttosto che sia stato il passaggio da raccoglitore-cacciatore (sostanzialmente nomade) ad agricoltore-pastore (sostanzialmente stanziale), durato certamente diversi millenni ma molto precedente alla fondazione della città, perché con quello l’uomo ha cambiato radicalmente le sue abitudini di vita, non solo rispetto a prima ma anche agli “altri” viventi, di cui siamo parte, a tal punto che alcuni fanno risalire ad allora l’inizio dell’antropocene, senza nulla togliere ovviamente all’importanza della città.

Quando scrivi che per Socrate solo la polis è fonte di insegnamento: ”Fedro accompagna Socrate in un boschetto alle porte di Atene per meglio conversare. Il vecchio filosofo si stupisce e si compiace di tutto ciò che lo circonda al punto che l’amico ne sottolinea l’enfasi chiedendogli ironicamente se per caso non sia mai uscito da Atene. E Socrate gli conferma che è proprio così. Ne uscì solo per il servizio militare e ora, mentre non esita a riconoscere quanto sia bella la natura, sottolinea: “Perdonami carissimo, io sono un uomo che ama imparare. La campagna e gli alberi non mi vogliono insegnare niente, gli uomini della città invece sì”, la mia impressione è stata che Socrate, nell’attribuire giustamente una grande importanza alla polis, abbia però peccato quantomeno di omissione nel sottovalutare l’importanza della campagna come luogo da cui e in cui l’uomo potesse imparare molte cose. Che poi le cose siano andate come diceva Socrate è un fatto sotto gli occhi di tutti, ma che oggi più che mai dobbiamo rielaborare visto quello che sono diventate le città.

Dal paragrafo “Il luogo della società”

Quando scrivi: ”Diversamente dalla comunità arcaica, la società ospita le diversità, non nel senso che le accoglie, ciò che sapevano fare anche le comunità, ma come elemento del proprio costrutto. L’ospitalità implica quella reciprocità con cui il termine ospite designa sia l’ospitante che l’ospitato. L’accoglienza non prevede alcuna reciprocità e anzi istituisce la dissimmetria tra chi accoglie e chi è accolto.”, si tratta di una affermazione pienamente condivisibile, ma ti chiedo: si è mai realizzata una società del genere? Megalopoli come Londra, Parigi, New York, tanto per restare nel mondo occidentale, formate da quartieri grossi come città medio-grandi nei quali risiedono genti provenienti da ogni parti del mondo, per non parlare delle baraccopoli attorno alle grandi metropoli presenti negli altri continenti) “ospitano” davvero quelle genti o non piuttosto le diverse comunità etniche non solo non vengono integrate nel tessuto sociale ma addirittura restano ghettizzate ai margini delle classi sociali autoctone più benestanti.

Poiché è evidente che le diverse comunità sono state accolte nella nostra società occidentale di impronta capitalistica per la crescente richiesta di mano d’opera di medio-basso livello, non posso che dedurre che la “città ideale” di cui parli non si sia mai realizzata. Perfino nell’antica Grecia, dove è nato il concetto di polis, assieme a quello di democrazia, ho qualche dubbio che si sia realizzata, se non in forma assai primitiva, dal momento che non la consapevolezza che i diritti dell’uomo dovessero essere rispettati era ancora molto abbozzata, in quanto schiavitù e sottomissione delle donne erano considerate normali.

Stando così le cose, la società ideale di cui parli potrebbe realizzarsi qualora il nostro modo di vivere venisse completamente rovesciato, ovvero i diritti delle persone venissero completamente assimilati nel tessuto sociale. Non mi riesce tuttavia facile immaginare come ciò possa realizzarsi, se penso soprattutto alla mancanza di dimensione delle nostre grandi città e al loro distacco dalla campagna, per non parlare delle baraccopoli, nonostante che negli ultimi decenni si stia cercando di realizzare alcuni progetti di cambiamento in senso positivo, purtroppo accompagnati da molti altri di segno opposto.

Dal paragrafo “Chi sono i ‘tutti’?”

Quando scrivi: In un cammino che attraversa tre millenni, l’estensione dei diritti civili a ‘tutti’ non ha saputo formulare due domande: chi sono i tutti? gli altri viventi, appartengono ai tutti? A ogni evoluzione della storia umana, la platea dei ‘tutti’ si amplia quanto più si riconoscono, a nuovi soggetti, i diritti di tutti.”, perché chiami ’tutti’ quelli che in realtà sono solo una parte, peraltro minoritaria e presumibilmente privilegiata, dell’umanità, dal momento che in gran parte del globo il sistema democratico, alla base del rispetto dei diritti civili, o non si è mai realizzato o è stato estromesso da altri modelli sociali?

Dal paragrafo: La misura della città

Quando scrivi: “Margaret Thatcher poteva ritenere che la società non esistesse affatto perché

leggeva le relazioni nella dimensione rarefatta dello Stato da dove è sempre possibile passare, arbitrariamente, dalla macrodimensione dei rapporti mondiali fra le istituzioni alla dimensione domestica, dove Berlusconi ritrovava il volto della mamma e dove Salvini ci parla del rosario.”, non riesco a capire il significato della frase. Ti sarei grato se tu potessi esprimere il tuo pensiero in maniera un po’ meno ermetica.

Colgo l’occasione per salutarti cordialmente

Roberto

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