Casa della Comunità e costruzione della salute

di Franco Prandi*

L’Associazione “Prima la Comunità”

“Prima la Comunità” è un’associazione nata alla fine di un percorso che è iniziato nel 2013 con un Manifesto dal titolo evocativo “Salute bene comune, per un’autentica casa della salute”. Due realtà del terzo settore a vocazione pubblica (Fondazione Casa della Carità di Milano e Fondazione Santa Clelia Barbieri dell’Appennino Bolognese) lo hanno proposto raccogliendo il contributo di autorevoli voci di professionisti delle istituzioni sanitarie e sociali e dell’Università. Dal manifesto è nato il bisogno di misurarsi con la realtà: per questo sono partite 8 esperienze concrete (6 Aziende sanitarie, tra cui Parma, e 2 del privato sociale) con riferimento valoriale e organizzativo al manifesto[1].

Da queste esperienze è emersa la convinzione che si doveva approfondire ulteriormente e quindi il lancio di un percorso di ricerca-laboratorio di “Community building” con circa 30 aziende sanitarie e 10 altre organizzazioni del terzo settore e del volontariato – che Fiaso e Federsanità hanno condiviso – che ha portato ad un catalogo di buone pratiche e allo sviluppo di una metodologia di lavoro di rete. Dopo questo periodo di incubazione si è sentito il bisogno di consolidare le idee maturate: da qui la nascita dell’Associazione che, ad oggi, vede circa 70 adesioni di organizzazioni diverse e altrettante personalità.

Salute e territorio

Per provare a fornire alcuni elementi di proposta, vorrei cominciare con un paio di chiose al termine “territorio”. Heidegger distingue tra territorio e luogo[2]. Il territorio è qualcosa che va abitato e identificato ponendo in campo valori e senso (può essere trasformato in discarica o in giardino) trasformandolo in luogo. La metafora è interessante perché introduce la dimensione della scelta, che diventa la forma concreta per la trasformazione del territorio/spazio in luogo; valori e senso divengono il ponte che permette di abitare il territorio trasformandolo in ciò che vogliamo. Il territorio è dunque il luogo dove si costruisce l’identità e si vive la salute.

Relativamente alla salute, il termine “Servizi territoriali” rischia di essere ambiguo. Anche l’ospedale è un servizio territoriale, perché rientra in un sistema che supporta condizioni di benessere. Io credo si debba pensare ad un sistema sociale per la salute dove l’insieme dei servizi è funzionale alla salute. Oggi questo sistema funziona poco perché non è in connessione. Questa è la prima antinomia da ridefinire! Vi è anche da considerare che la salute sta alla sanità per il 15-20% (ce lo diciamo tutti, ce lo dicono i fatti, oltre che all’OMS), ma alla fine la identifichiamo con la sanità. Invece è una condizione complessiva ed è il risultato di connessioni profonde tra sapere, consapevolezza, condizioni di vita, contesto relazionale: ci riferiamo ai cosiddetti “determinanti della salute” che non sono integrativi ma sostanza per la salute.

Perché ho voluto esplicitare questi due elementi? Perché condivido profondamente quanto sottolinea da sempre l’OMS, ossia: «La salute si sviluppa nei contesti della vita quotidiana, nei quartieri e nelle comunità in cui le persone vivono, lavorano, amano, fanno acquisti e si divertono. E questa salute è uno dei più efficaci e potenti indicatori dello sviluppo sostenibile e di successo di ogni luogo di vita e contribuisce a rendere i luoghi di vita inclusivi, sicuri e resilienti per l’intera popolazione.» (Dichiarazione di Shanghai, 2016).

Connettere salute con “territorio” ha due ragioni che considero complementari: la prima è di natura eco-antropologica. In una dimensione di ecologia integrale, dove ogni cosa è connessa, non è legittimo isolare i vari aspetti del vivere, e quindi delle risposte ai problemi che il vivere presenta. La seconda è più di natura organizzativa e sociale che rimarca l’esigenza di osservare le cose dal di dentro. Non solo avere una visione globale, ma anche una visione specifica sulla salute, come ci propone Alma Ata (OMS 1978) quando sottolinea che esiste un unico sistema di servizi per la cura. Si tratta dei servizi sanitari e sociali di base mentre gli specialistici sono integrativi dei servizi di base.

Comunità e bene comune

Reti sociali e “capitale della reciprocità”, percorsi educativi, gestione del territorio, economia e lavoro, autosufficienza economica, forme della relazione sociale (volontariato formale e non…), sostegni diversi nei casi di bisogno, forme di garanzia per le fragilità e così via sono il terreno di azione per la costruzione della salute. Con un’attenzione specifica a garantire la consapevolezza e la partecipazione diretta della comunità.

La comunità va pensata nella sua accezione originaria di “Cum Munus”, dove si declinano dono, responsabilità e impegno reciproco. Sempre meno si può immaginare una comunità come struttura basata su territorio, religione, etnia, storia (chiusa dentro confini difensivi di identità). Oggi la responsabilità reciproca si gioca sul tema dello stare bene collettivo e individuale come bene comune. In questa prospettiva, le diverse istituzioni – costrutti storici per rispondere al bisogno di salute/benessere – hanno bisogno di fare un passo indietro e rappresentarsi come risorsa della comunità, connesse alla comunità a cui devono rispondere in una logica di advocacy reale e non formale. Quindi comunità non si identifica né con le istituzioni a priori né con specifiche articolazioni organizzative. Il distretto non è una comunità, ma un’articolazione organizzativa, utile se supporta la comunità, così come va pensato il tema del Comune. Anche se al Comune è indispensabile riconoscere un ruolo unificante.

È indubbio che quanto detto non conclude la riflessione necessaria sul tema delle comunità in questa fase storica, ma vanno chiariti i confini di essa, che sono innanzitutto sociali e relazionali. Mi piace, a tal proposito, la definizione di Bauman: «Salute è (nel)la comunità, (nel)l’insieme delle relazioni di reciprocità che in essa instauriamo e che ci “rassicurano” perché […] in una comunità possiamo contare sulla benevolenza di tutti. […] Aiutarci reciprocamente è un nostro puro e semplice dovere, così come è un nostro puro e semplice diritto aspettarci che l’aiuto richiesto non mancherà.» [3]

La Casa della Comunità come processo di “community building”

La Casa della Comunità costituisce una risorsa derivante dall’incontro di tutte le potenzialità presenti in un contesto di relazioni in funzione di un disegno di salute comunitario. Quando nel 2007 l’allora Ministro Turco lanciò l’idea delle Case della Salute aveva in testa proprio questo (credo lo si possa dire essendo lei una protagonista della nostra Associazione) se è vero che nel sito Ministeriale veniva scritto: «La Casa della Salute è la sede pubblica dove trovano allocazione, in uno stesso spazio fisico, i servizi territoriali che erogano prestazioni sanitarie, compresi gli ambulatori di Medicina Generale e di Specialistica ambulatoriale, e sociali per una determinata e programmata porzione di popolazione. In essa si realizza la prevenzione per tutto l’arco della vita e la comunità locale si organizza per la promozione della salute e del ben-essere sociale». Si parlava quindi di Casa della Salute come luogo fisico di servizi per la salute, ma si comprendeva anche la promozione della salute e del benessere sociale che andavano al di là dello spazio fisico. Dunque, quando si introduce la parola comunità, si deve parlare di salute globale e non di sanità o al massimo di apparato socio-sanitario.

Questa visione richiede un passaggio culturale per tutti i professionisti, non solo quelli della sanità e del sociale, ma anche quelli della scuola, della cultura, della gestione del territorio. Essi non sono tanto prestatori d’opera, ma parte della comunità con cui sono in relazione. I contributi specialistici si integrano con la capacità di vedere le cose dal di dentro nella loro complessità e permettono ad ogni curante di “avere cura” e non solo erogare prestazioni in una logica che si confonde facilmente con quella mercantile.

Se vista nella sua dimensione relazionale, La Casa della comunità non necessariamente si esaurisce in un unico luogo fisico perché diventa essenziale la dimensione simbolica. Essa è, per usare una espressione partecipativa, quel luogo dentro la comunità in cui ogni persona può dire “è casa mia”. In altri termini, si potrebbe dire che tale entità dovrebbe costituire il luogo:

  • di una nuova identità comunitaria (reti di reti);
  • dei diritti di cittadinanza (basata sul riconoscimento reciproco);
  • della partecipazione e della consapevolezza dei doveri;
  • della integrazione delle risorse (un progetto di sistema)
  • dell’accoglienza e dell’avere cura (la persona è considerata in quanto tale e non catalogata secondo criteri di reddito, patologia, ecc.).

Questa impostazione permette di andare oltre alla visione che la propone come una struttura dove si erogano prestazioni sanitarie a cui delegare la soluzione dei problemi individuali, ambiente degli “specialismi”, della tecnologia, dell’esercizio del potere.

Credo che, se si tiene conto di questi elementi, sia difficile immaginare un modello unico di Casa della Comunità: le storie ed i contesti possono definire specifiche configurazioni, prestando un’attenzione preliminare alle persone che la “abitano”. Infatti la casa della comunità si dovrebbe costituire “con” le persone residenti, nel senso profondo della partecipazione diretta.

Come Associazione, abbiamo provato a immaginare le caratteristiche di una CdC e quattro ci paiono dirimenti; esso dovrebbe essere:

  • Interprete attenta dei fenomeni sociali (che vanno oltre le dimensioni sanitarie);
  • Inclusiva accogliente e aperta;
  • In ascolto onesto, sulla base di profili di comunità, ossia stilando mappe delle risorse e dei bisogni della popolazione locale;
  • A gestione sociale: immaginiamo una governance autonoma basata su budget di salute di comunità capace di favorire progetti di salute con risorse dedicate. Significa riconsegnare ai cittadini l’esercizio della democrazia sulla loro esperienza di vita.

Partendo da questi elementi si può provare a formularne una specie di “carta d’identità” misurandone concretamente l’agire:

  • Va verso”: nel senso di porte aperte ma anche di capacità di ascolto di quelli che sono bisogni e risorse presenti. Il PUA (Punto Unico di Accesso) dovrebbe creare le condizioni per l’accoglienza a tutto campo e fare sintesi di molteplici sensori già presenti nella comunità (informativi e sociali);
  • Va a cercare” chi non arriva: infatti sappiamo che esistono esigenze/bisogni che non sono catalogati, ma anche che ci sono risorse che non vengono valorizzate;
  • Costruisce cultura della salute”: infatti la comunità è essa stessa produttrice di salute;
  • Si inserisce in un contesto di “sostenibilità” che è sociale, economica e tecnica;
  • Garantisce il protagonismo della persona che non è destinatario, ma artefice del proprio progetto di salute;
  • Garantisce il protagonismo della comunità ossia una partecipazione non formale.

Per verificare l’andamento di questa costruzione diventano indicatori non tanto il numero delle prestazioni sanitarie e/o sociali erogate quanto le connessioni non formali tra tutti gli attori sociali e la loro capacitazione, cioè il loro protagonismo, la coesione sociale, la partecipazione, le opportunità di sviluppo del capitale sociale e, in generale, una sostenibilità che ha la sua radice nella visione ecologica integrale e nella gestione dei beni comuni. Diventa quindi cruciale definire una ipotesi progettuale che sia contemporaneamente informativa (basato su profili di comunità dove risorse e bisogni si parlano), organizzativa (con una governance unitaria, che significa gestione quotidiana ma soprattutto possibilità/responsabilità di un programma condiviso e attuato attraverso alleanze di sistema), formativa (per un lavoro di squadra reale e per una consapevolezza diffusa in ogni persona/cittadino di responsabilità che significa diritti e doveri) e valutativa (con una necessaria trasparenza verso i cittadini e una documentazione puntuale di quanto succede in termini di salute nella comunità).

Pur senza pensare ad un modello predefinito e fisso, pare importante sottolineare che la Casa della Comunità dovrebbe rispondere ad alcuni criteri anche strutturali. Accanto a luoghi per la sanità e per il sociale adeguati, sono indispensabili spazi che denotano una visione completamente nuova. Qualche esempio non esaustivo:

  • Spazi esterni funzionali alla socializzazione e ad attività di promozione della salute;
  • Zona della prima accoglienza riconoscibile dalla persona che individua subito la attenzione e la disponibilità dei suoi confronti
  • Aree che facilitano le interconnessioni tra i diversi servizi e favoriscano le relazioni interprofessionali;
  • Spazi di riferimento per le Istituzioni e le agenzie che partecipano alla formulazione e realizzazione del progetto di salute della comunità (volontariato, terzo settore, reti formali e informali);
  • Spazio per la partecipazione e dove si assumono le decisioni da parte della comunità.

Per concludere

Una provocazione/invito che ricavo da Edward De Bono sostiene che «non si può avere una nuova buca se si continua a scavare nello stesso posto»; un concetto ribadito anche da Einstein quando ci dice che «non si possono risolvere i problemi di oggi con le stesse categorie mentali con cui li abbiamo creati». E concludo con le parole di Morin, quando afferma che «Quello in cui si può sperare non è il migliore dei mondi, ma un mondo migliore […] Tutto è da riformare e da trasformare. Ma tutto è già cominciato senza che lo si sappia. Miriadi di iniziative fioriscono un po’ ovunque sul pianeta. Certamente queste iniziative sono spesso ignorate, ma ciascuna, sulla sua via, apporta “relianza” e coscienza […]. Lavoriamo per “rilegare”, sempre “rilegare”»[4].

*Franco Prandi, già Dirigente Ausl RE, è esponente dell’Associazione “Prima la Comunità”.

  1. Abbiamo messo in comune i risultati con gli interrogativi che hanno suscitato queste esperienze nel libro di S. Landra, F. Prandi, M. Ravazzini, La salute cerca casa, DeriveApprodi, Roma, 2019.
  2. M. Heidegger (1951), Costruire, abitare, pensare, Ed. Ogni uomo è tutti gli uomini, 2017.
  3. Z.Bauman, Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari, 2001, p. 4.
  4. E. Morin, La via per l’avvenire dell’Umanità, Cortina, Milano, 2011, p. 283.

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