Resistenze e apprendimenti ai tempi del coronavirus

di Marco Ingrosso – Pochi anni or sono un antropologo sociale norvegese, Thomas Hylland Eriksen, scriveva un libro titolato “Fuori controllo. Un’antropologia del cambiamento accelerato” (Einaudi, 2017) in cui esaminava pesanti conseguenze impreviste del cambiamento sempre più veloce contemporaneo: «Il mondo contemporaneo è…troppo popolato? Troppo intenso? Troppo veloce? Troppo surriscaldato? Troppo neoliberista? Troppo fortemente dominato dagli esseri umani? […] Nei sistemi complessi, un’azione ha spesso conseguenze impreviste più rilevanti dei risultati programmati».

Mettendo a confronto questa previsione con la situazione odierna si osserva, per contrasto, che l’influenza di coronavirus ha ridotto (seppur di poco percentualmente) la popolazione, ha fortemente limitato l’intensità e la velocità di moltissime attività, ha persino ridotto l’inquinamento in alcune parti del pianeta in ragione del freno posto agli spostamenti e all’attività umana, ha attivato una forte ripresa della mano pubblica, comunitaria e collettiva, ha dato un potere inusitato a microscopiche entità viventi mettendo “fuori controllo” diversi progetti e intenzionalità umane! Si può discutere se questo evento di portata mondiale sia una delle conseguenze impreviste del “surriscaldamento” evocato da Eriksen o sia un fenomeno con una dinamica a se stante che l’autore non prevede nel suo libro. Dunque un’ulteriore tipologia di rischio catastrofico che viene ad aggiungersi a quelle relative ad energia, mobilità, città, rifiuti, sovraccarico di informazioni.

Sta di fatto che già dopo una prima fase di alcuni mesi (e con un futuro di durata e intensità del tutto incerte), tale fenomeno è stato in grado di mettere in crisi i trasporti interni e internazionali, il turismo, la produzione economica, le borse, la scuola, la sanità e molti altri scambi e strutture collettive. Per le popolazioni residenti nelle aree investite in prima persona, si è trattato di una brusca rottura della continuità quotidiana, del “dato per scontato”, che ha richiesto un repentino adattamento. Le strutture collettive (politiche, sanitarie, di sicurezza, ecc.) sono state poste sotto forte pressione per affrontare il veloce cambio delle esigenze primarie legato al tentativo di bloccare la diffusione del virus. Dai “focolai” originari tuttavia l’epidemia tende a diffondersi implacabile su spazi sempre più grandi, con piccoli fuochi via via più estesi che coinvolgono intere comunità nazionali e larghe macro-regioni in quasi tutto il pianeta. Da pochi giorni l’OMS ha definito la diffusione come una “pandemia”. In poco tempo nelle aree interessate si è passati da un coinvolgimento preventivo in termini timore, fame di notizie, corsa all’accaparramento, ritiro dai viaggi e dagli incontri, a una situazione di coprifuoco, di blocco semi-totale di tutte le attività con contagi sempre più vicini e diffusi.

Quale lettura viene dunque fatta di un tale macro-accadimento da parte della gente? Molto dipende dalle chiavi interpretative pre-esistenti relative al legame sociale. Come è noto, in questa fase storica prevale nettamente la visione sfiduciata, diffidente, cinica (chi ci guadagna? chi manovra?) e securitaria della vita sociale, dunque la paura dell’Altro, una visione che è alla base dei fenomeni psico-politici di retrotopia (Bauman, 2017) e di populismo sovranista. Tuttavia il tentativo dei primi tempi di diffusione di gridare all’untore esterno (questa volta cinese) si è ben presto rovesciato in una esclusione proprio degli italiani che speravano ingenuamente di essere fra gli intoccabili del mondo (“chi la fa l’aspetti”?). L’allarme e il timore finora riservati allo sconosciuto, all’estraneo, al diverso, si trovano improvvisamente estesi al vicino, al conosciuto, all’amico che va tenuto a distanza, di cui è bene diffidare preventivamente. Se il possibile contagio è ovunque è difficile sia scappare sia difendersi. Qualcuno ha fatto notare che si può passare allora dalla paura (di qualcosa o qualcuno ben marchiato e localizzato) all’angoscia o al panico (dove il pericolo è ovunque e relativamente indeterminato)!

Nel frattempo, molti giornali, blog e social sono pieni di critiche alle autorità perché hanno chiuso troppo poco le frontiere, troppo tardi o perché, al contrario, hanno allarmato troppo, non hanno comunicato bene, o ancora perché non si sono occupati di questi e di quelli, della categoria tale e di quell’altra. Quindi anche il coronavirus conferma e rialimenta in molti l’immaginario rabbioso e sfiduciato precedente, ma insieme lo mette un po’ in crisi: non si sa più bene con chi prendersela quindi ci se la si prende con tutti! Gregory Bateson (1972) direbbe che abbiamo un apprendimento zero: anche se viene giù il mondo molti continuano a leggerlo come di consueto!

Un’altra lettura abbastanza diffusa è quella di coloro che privilegiano le libertà personali rispetto alle norme comuni che inevitabilmente vengono emanate. Vi sono molti che manifestano insofferenza, che rivendicano la loro trasgressività e autonomia di giudizio con un atteggiamento acre verso le disposizioni delle varie autorità, evidenziandone le incongruenze, le contraddizioni, l’inapplicabilità in specifiche situazioni. Tali persone privilegiano la visione individuale rispetto all’immaginario massificato del populismo, ma sono altrettanto attente a prendere le distanze di fronte ai richiami alla coesione sociale, al bene comune delle autorità morali del Paese. Spesso si tratta di persone che ritengono di essere al di sopra dei pregiudizi comuni e quindi con uno status morale superiore: più razionali, più controllati, più consapevoli (in particolare di chi prende le decisioni collettive). Quindi anche questo gruppo tende a confermare la propria visione qualunque siano le circostanze.

Un altro tipo di risposta al pericolo è quella di coloro che ritengono di esorcizzare le paure con un’applicazione rigida e maniacale delle disposizioni igieniche, rivolgendo forti critiche a chi non segue il loro esempio, sottovalutando l’allarme e i rischi connessi. In questo caso vi è un aggrapparsi alle norme, alle regole impartite, alle privazioni conseguenti che, come in un’ascesi laica, dovrebbero rendere più probabile il raggiungimento della salvezza dal morbo. Qui vi è un adattamento, ma del tutto difensivo, chiudendosi in uno spazio protetto con solo se stessi e i familiari dentro: una sorta di Arca di Noè al contrario! In questo quadro contradditorio e incerto, vi sono però anche molti che riescono a mantenere una visione in equilibrio sul filo teso, evitando sia il panico irrazionale sia l’avventurismo trasgressivo, mettendo in luce una forte dose di pazienza e resilienza, adattandosi alle contingenze, persino evidenziando alcuni aspetti positivi della sosta forzata e del cambio di passo. Sui giornali si leggono di eroi del quotidiano che fino a ieri ignoravamo: ricercatori precari, medici di base e ospedalieri, infermieri, scienziati, capitani di nave, forze dell’ordine, amministratori, tecnici, insegnanti, preti, semplici cittadini che fanno la loro parte. Per molti aspetti, pur nella distanza sociale necessariamente accentuata, molti di costoro sentono l’esigenza di tornare a reincontrare l’altro, appena possibile, di ritrovare i momenti collettivi, sentono la responsabilità di mettersi insieme per ottenere il risultato, sono grati a tutti coloro che rinforzano e perseguono il “bene comune”. Tanto è vero che, nonostante tutto, torna a serpeggiare un po’ di orgoglio per un Sistema Sanitario universalistico che risponde e lo fa verso tutti, per una ricerca scientifica che ottiene risultati, per una scuola che si attiva per i suoi studenti.

Dagli altri europei ci si aspetta aiuti e comprensione, non colpevolizzazione ed esclusione. Ma anche dai cinesi – che già sembrano superare il picco dei contagi – e da popoli di altri continenti, tanto che persino un super-commissario è stato invocato e alfine nominato per organizzare gli arrivi di personale, attrezzature, macchinari per la terapia intensiva e quant’altro dalla Cina per affrontare tempestivamente l’emergenza! Insomma gli scenari sono in accelerato movimento e chi non ha ancora preso pienamente coscienza dell’emergenza in corso è invitato a farlo al più presto, assumendo comportamenti, ma prima ancora modi di pensare più consoni all’urgenza dei fatti in corso.

Dunque, viste le tendenze contrastanti che si dispiegano nel corpo sociale, ci si può aspettare dei cambiamenti più o meno profondi nelle pre-cognizioni, nei pre-giudizi con cui guardiamo alla vita sociale? Si accentueranno gli elementi disgreganti dei legami sociali, mantenendo le chiavi interpretative pre-crisi? o cominceranno ad emergere nuove esigenze di ricorrere a strumenti collettivi, a solidarietà, a vicinanze di cui da tempo si diffidava? Si vivrà asserragliati o si comincerà a capire che degli altri, in tutti i sensi, si ha bisogno? Vi saranno apprendimenti strumentali (soluzioni pronto uso) dentro il set di alternative già oggi presenti (pronti a ritornare sui nostri passi appena possibile) o sorgerà l’esigenza di fare un salto di qualità, una rivoluzione dello sguardo di fronte alle tante situazioni “fuori controllo” che si accumulano?

È ciò che ci diranno i mesi futuri! Come in ogni crisi, accanto ai disagi e all’incertezza, si aprono spazi per nuovi cammini che parevano impossibili da immaginare, prima che da percorrere, ma il rischio di confermare le premesse precedenti ignorando la forza degli avvenimenti resta sempre la tentazione più forte!

Marco Ingrosso
Parma, 12 marzo 2020




Potrebbero interessarti anche...

4 risposte

  1. Bruno Abati ha detto:

    Caro Marco, ti invio alcune riflessioni di questi giorni. Io, individuo umano, sono di fronte all’Altro e cioè: a) alla comunità della natura umana con cui interagisco; b) alla natura planetaria che ci ospita e ci offre i suoi doni, e perciò le va riconosciuto rispetto, diritti, tutela.
    Non è stato così per secoli. La comunità umana si è combattuta per motivazioni politiche, economiche, sociali, e continua così, oggi, in varie parti del mondo. La natura planetaria è stata devastata, piagata, desertificata, inquinata da colui che ne era stato dichiarato signore, padrone (in pratica sfruttatore all’infinito).
    Possiamo, dobbiamo chiederci che cosa stiamo imparando, già da prima del coronavirus e ora con la pandemia. Cosa potremmo capire, progettare e decidere di fare. Già da tempo è notevolmente cresciuta la sensibilità e la consapevolezza che la terra-natura va rispettata e tutelata profondamente se ci teniamo a sopravvivere e soprattutto a vivere una vita buona. È un sapere che si diffonde sempre di più e si traduce in pratiche positive, anche se tanto resta da fare.
    Ma la situazione attuale che cosa potrebbe ancora insegnarci?
    – Comincio dalla solitudine e dal silenzio, che spaventano molti, abituati alla compagnia, alle chiacchiere, ai divertimenti, al rumore. Il risultato potrebbe essere duplice: oltre a guardare la televisione, telefonare a destra e manca, annoiarci, perché non lasciare qualche spazio alla meditazione (e i temi sarebbero tanti), alla preghiera per chi crede, alla riflessione sul senso dell’esistenza, della malattia, del dolore, della morte, sul senso della bellezza e gratitudine di fronte al mondo in tutta la sua varietà, a nuovi modi di incontrarci, stare insieme, a nuove e creative attività di tempo libero, ecc…
    – Uno dei caratteri principali della cultura, specialmente negli ultimi 30-40 anni è stato un marcato individualismo, del tutto estraneo a ogni forma di solidarietà (eccetto durante gli episodi di disastro collettivo). Ora la situazione è idonea al ripresentarsi di forme varie di dedizione, dono di sé, solidarietà e fratellanza, che ci uniscono in questo periodo di paura, dolore, solitudine e smarrimento. Ne sono speciali esempi: i medici, infermieri e altri operatori sanitari impegnati a fondo, con tanta fatica e rischio di morire per curare e salvare i contagiati, oltre che gli altri pazienti; poi ci sono varie forme di volontariato, in particolare riguardanti gli anziani, i disabili, gli indigenti (per fare la spesa, per rassicurare e tenere compagnia); molto belli anche i canti collettivi dai balconi (Fratelli d’Italia e altri canti) per corroborare tutti insieme il senso di fratellanza, che ci unisce in questi momenti, e per manifestare tutta la gratitudine e il sostegno della popolazione nei confronti dei medici, infermieri, volontari della protezione civile. Senza pensare, ora, a un cambiamento profondo del nostro stile di vita, è possibile tuttavia che questi sentimenti e comportamenti si consolidino in qualche modo, con conseguenze importanti nelle nostre relazioni interpersonali e sociali;
    – La scala che si è percorsa finora per far fronte al coronavirus è stata: restrizioni e norme rigide di salvaguardia della nostra sicurezza, seguite da preoccupazioni per la nostra economia recessiva da riattivare (sperando nei tempi non lunghi); inoltre progressivi interventi per il sistema sanitario: ricerca posti letto, costruzione di ospedali, ricerca di medici e infermieri,….; sul piano tecnico acquisto di mascherine e altri presidi, trasporto di bombole di ossigeno negli ospedali, macchine per le terapie intensive, ecc…. Infine la politica che, acquisendo maggiore autonomia ha cominciato a coordinare le misure restrittive, a programmare un insieme complesso di interventi per il welfare, l’economia, la scuola e l’Università, le tutele economiche per i lavoratori subordinati e autonomi, supportando tutto ciò con un cospicuo fardello di miliardi e molteplici misure attuative. L’obiettivo, oltre che fermare la pandemia, è quello di porre le basi per il ripristino delle condizioni basilari del vivere individuale e associato: liberazione dei cittadini dalle restrizioni imposte; rafforzare il sistema sanitario pubblico; favorire la ripresa dell’economia e dell’occupazione; avviare misure per la tutela ambientale e contro il riscaldamento climatico.
    Ciò che ci si deve chiedere è se sia possibile non solo la semplice ripresa delle vecchie abitudini, ma una reale innovazione negli ambiti sopra accennati e di che tipo. Difficile rispondere, ma voglio comunque esprimere una serie di considerazioni:
    – Anzitutto, credo che vada ripensato il rapporto tra beni-attività privati, pubblici e comuni, nella cornice di un orientamento di fondo volto ad una integrazione restaurativa/innovatrice del rapporto natura umana-natura planetaria. Compito immenso, che esige innanzitutto una piena presa di consapevolezza e un riorientamento culturale praticabili attraverso l’intervento della politica come principio di sintesi dei più diversi apporti e attraverso il ripensamento radicale dell’educazione e formazione a tutti i livelli di età. Utopia forse. Ma il problema bisogna porselo;
    – Un secondo approccio è il coordinamento tra la gestione dei beni pubblici e dei beni comuni, con i beni privati da rendere coerenti con tale coordinamento. Mi soffermo per ora, in particolare, sui beni comuni perché è soprattutto qui che si gioca la posta decisiva della democrazia, del cambiamento dei modelli produttivi, gestionali e di controllo, della collaborazione cooperativa e comunitaria per la tutela dei beni appartenenti a tutti. Facciamo degli esempi di beni comuni e delle responsabilità che dovremmo assumere:
    a) Tutela dell’aria – L’inquinamento atmosferico è generato da una molteplicità di fonti: sistemi centralizzati (produzione energia), mezzi individuali (auto, moto), carenze nella bonifica di impianti industriali inquinanti, ecc… I rimedi ipotizzabili possono essere: il trasporto pubblico elettrico (gestito in condivisione tra Comune e comitati di cittadini); produzione di energia a piccola scala (uso capillare del fotovoltaico, idroelettrico di piccola taglia, interventi vari di risparmio energetico nelle abitazioni. Qui è determinante l’impegno dei cittadini singoli e associati);
    b) Tutela dell’acqua – Diffusione di interventi per il risanamento e quindi potabilizzazione dell’acqua; interventi idraulici generalizzati per la riduzione degli sprechi, manutenzione continua degli acquedotti che disperdono mediamente il 35% e oltre dell’acqua, comportamenti rigorosi di risparmio sia nelle abitazioni che nelle aziende. Anche qui è necessaria la stretta collaborazione tra enti locali e gruppi o comitati di cittadini;
    c) Conversione produttiva – In funzione di decrescita, eliminazione o riduzione di merci inutili o dannose o nocive alla salute; eliminazione o riduzione massima dell’inquinamento generato dagli impianti di produzione o dalle coltivazioni agricole tradizionali o dagli allevamenti di bestiame (mangiare meno carne è tutta salute); riduzione sprechi e rifiuti attraverso recupero, riciclaggio, riuso. Su questo piano (ma non solo questo) essenziale è l’introduzione di precise forme di democrazia partecipativa all’interno delle aziende con l’apporto ideativo-contrattuale dei sindacati, delle amministrazioni locali, dei comitati dei lavoratori, coinvolgendo anche altri cittadini
    d) La Scuola e la conoscenza – Grandi beni comuni che vanno sottratti al solo governo dello Stato, quanto piuttosto affidati all’elaborazione della pluralità dei soggetti che agiscono all’interno della scuola, a partire da insegnanti, studenti, genitori in forma associata comune per comune, provincia per provincia, ma anche con l’apporto di enti locali e di cittadini. Con l’obiettivo di formare innanzitutto cittadini, non solo lavoratori e con l’istituzione di forme di educazione degli adulti permanenti per tutti coloro che desiderano arricchire le proprie conoscenze e partecipare attivamente alla vita pubblica;
    e) Il Sistema della Salute, che va sburocratizzato e gestito in primo luogo dalle comunità degli operatori con il contributo determinante di cittadini, esperti e non, associati;
    f) L’Ambiente – Oltre la lotta contro gli inquinamenti, sono urgenti, improrogabili tutti gli interventi per fermare il surriscaldamento del clima, non solo per scongiurare disastri, ma anche per segnare una svolta profonda nel rapporto natura umana – natura planetaria
    g) La Politica, lasciando da parte leggi elettorali, taglio dei parlamentari, ecc…,i cittadini dovrebbero impegnarsi ad attivare una politica dal basso attraverso le varie forme avviate in questi ultimi anni: bilancio partecipativo, strumenti vari per la discussione e la presa di decisioni nel rapporto con gli Enti locali per l’attuazione degli interventi co-decisi; costruzione di strutture dedicate ai cittadini per lo svolgimento di tutte le attività come discussione, progettazione, decisione. E magari inventandone altre.
    Mi fermo qui. Le indicazioni sono molto sommarie e apparentemente astratte, ma è una volontà rinnovata di incontro, cooperazione, solidarietà, assunzione di responsabilità che ci auguriamo possa nascere dall’esperienza del coronavirus, che può aprire il varco ad un clima di autentico rinnovamento. Tenendo conto che non possiamo attenderci granché dall’alto, servono piuttosto capacità di iniziativa, creatività, assunzione di responsabilità per stimolare i cittadini ad agire. Abbiamo di fronte dei problemi enormi da affrontare e risolvere, non lasciamo cadere gli insegnamenti che avremo acquisito dalla dolorosa esperienza della pandemia.

    Bruno Abati 18 marzo 2020

  2. Marco Ingrosso ha detto:

    Caro Bruno, caro Piergiorgio, grazie dei vostri interventi che iniziano a riempire di contenuti le domande poste dal mio intervento!
    Innanzitutto vi è da riflettere sui tempi: la notte man mano continua a spostare i suoi confini e noi tutti cerchiamo di attrezzarci per sopravvivere a tempi sempre più lunghi. Finora mi sembra che complessivamente ce l’abbiamo fatta, ma ora vedo segnali di cedimento, di forte nervosismo per i contagiati e i ricoveri che non stanno diminuendo, per le diverse realtà dei territori, per (i pochi o molti?) “antisociali”, come dice Bruno, che fanno di testa loro e non si adattano alle restrizioni. Già cominciano arrivare gli avvisi che si andrà oltre il 3 aprile e probabilmente si arriverà fino a maggio, se non a giugno! Però sono d’accordo con Piergiorgio che il “dopo” ci sarà, prima o poi: importante è come ci si arriverà, come si potranno smaltire le tossine accumulate e ripartire con la giusta “esperienza” e “prudenza”, più che a passo di carica, tenendo “a memoria” cosa dobbiamo fare – singolarmente e collettivamente – nei prossimi mesi e anni.
    Anch’io da tempo ho una forte allergia per le metafore di tipo bellico usate in sanità, in primis per i riflessi sociali di tutto questo: come dice Piergiorgio, dobbiamo andare verso una società dai comandi militarizzati e centralizzati (tipo Sparta) o preservare la democraticità di Atene, sviluppando però senso di responsabilità e impegno, coesione, senso del bene comune, nuove forme di organizzazione e così via! Ma vi sono anche motivi non meno profondi che riguardano l’idea di salute che vogliamo perseguire: ossessionata dai rischi che ci minacciano ovunque o attenta a combinare resilienza, salutogenesi (processi che originano salute) e contenimento delle patologie, cambiando le dinamiche ecologiche che ci legano al nostro ambiente di vita? Dobbiamo coltivare un senso di superpotenza tecnologica e iperprevedibilità (società securitaria) o accettare che esistono anche larghi margini non conosciuti, non prevedibili? che non è facendola “da padroni” che ci salveremo ma coltivando delle capacità di adattamento, di flessibilità, di prudenza e saggezza.
    In questo tempo abbiamo visto all’opera tre macro-modalità di affrontare questa emergenza: quello della società cinese, molto direttiva, molto drastica, molto efficiente, ma che subito ha teso a negare l’emergenza (addirittura punendo i medici che la segnalavano); quello della società europea (in primis il modello italiano) che ha tentennato all’inizio, ma poi ha cercato di accompagnare misure sempre più drastiche col coinvolgimento della popolazione, con una certa libertà dialettica e con misure organizzative articolate fra autonomie locali e direttive comuni. In questo la struttura della Protezione civile ha giocato ancora una volta un ruolo molto positivo e importante, ma anch’essa andrà affiancata da nuovi strumenti in campo scientifico e in quello operativo. Anche l’Europa sta tentennando, dando ancora segnali contradditori, ma sembra che si muova: ancora una volta capiamo che non se ne può fare a meno, ma vorremmo di più perché la realtà dei fatti lo richiede. Vi è poi il modello anglosassone e neo-sovranista che sta dando risposte pessime, fortemente inadeguate (per non dire scandalose!) mostrando tutti i limiti di un pensiero che oscilla fra difensivismo verso “gli altri”, darwinismo sociale, fai-da-te allergico allo stato, ipereconomicismo cieco. Come ha scritto Tarquinio sull’Avvenire, si tratta di “un’aspra abdicazione” di (una molto lontana) leadership morale!
    Teniamo quindi monitorato questo tempo e ciò che si può fare ora, perché molto del prossimo futuro dipende da ciò che – nel bene e nel male – si co-costruirà in questa fase, compreso l’immaginario del futuro desiderabile verso cui vogliamo dirigerci. A presto!

  3. bruno agnetti ha detto:

    caro Marco,
    accidenti che commento intenso quello di Gallicani Piergiorgio al tuo profondo articolo.
    Da tempo eravamo “fuori controllo” aggravato dalla incapacità di comprendere ( arroganza del potere) le accelerazioni che ci hanno portato ad essere l’estremità dell’imbuto cosi estremo da diventare un puntino “insignificante” per un coronavirus!
    La profonda crisi del “dato per scontato” ha prodotto senz’altro un adattamento repentino di molti comportamenti ma non credo che questo abbia inciso negli animi e abbia riportato valori pre-esistenti ( alcune persone o gruppi li hanno comunque sempre coltivati).
    la paura invece c’è … aumenta non con le notizie del telegiornale o dei talk show ( che restano legati all’intrattenimento anche se parlano di tragedie). Questo stigma resta, non si cancella… ci sono i conduttori, le luci, i volti noti, la pubblicità. A volte appare all’improvviso e risulta addirittura di cattivo gusto . Ma quanta pubblicità c’è? E’ informazione o spettacolo? Che approfondimento o che riflessioni possono fare le persone? La paura abissale aumenta in modo direttamente proporzionale alle ultime pagine della Gazzetta!
    Il singolarismo è incrementale. E’ molto complicato ricostruire una cultura individuale e collettiva nuova. Tutto ciò è orrendamente complicato dalle importanti difficoltà dei singoli, sempre più numerosi, che si trascinano dietro veri problemi personologici come ad esempio gli antisociali ai quali non ne può fregare di meno di mascherine o di #iorestoincasa.
    Apparentemente alcune autorità ed alcune istituzioni non si sono fatte onore e cosi come coloro che in questi giorni si fanno onore ( di norma silenzioso ed appartato) sono distanti dalle prime perché a volte sono proprio state alcune autorità o istituzioni che hanno propagandato nel tempo ” lo status morale superiore”.
    Forse potrebbe essere questo il punto dove possa stare inserirsi una rinascita o un rinascimento ( per chi ne sarà capace): il bene comune che diventa valore primo senza nessuna altra autoreferenzialità superiore.

  4. Piergiorgio Gallicani ha detto:

    Grazie Marco Ingrosso per l’analisi: ampia, incisiva e sfaccettata. Una “… rivoluzione dello sguardo”, invochi – sì, di questo abbiamo bisogno.
    “Non c’è notte che non veda il giorno”, scrive William Shakespeare (ripreso da Giorgio Nardone, psicoterapeuta). Questo è un modo di pensare; e conforta che a questo pensiero poetico e terapeutico si possano trovare riscontri storici.
    Dato che in questi tempi di Coronavirus si sprecano, nel pubblico dibattito, le metafore di tipo bellico, proviamo a pensare – ad esempio – all’Italia dell’ultimo dopoguerra: un paese devastato, stremato, impoverito, rimbambito e ottuso da vent’anni di fascismo, lacerato da conflitti e odi intestini apparentemente insanabili … Che seppe ritrovare in sé le risorse per dar vita a quell’autentico miracolo laico e civile (ben prima del conseguente “miracolo economico”) che fu l’Assemblea Costituente – da cui nacque la Repubblica Italiana; e alla diffusa rinascita culturale, artistica, scientifica, letteraria, civica, intellettuale che poi seguì, in quegli anni di immediato dopo guerra (o, post noctem).
    Questo è un modo di pensare; poi c’è un altro modo ugualmente lecito – il pensiero entropico.
    … “così è la vita” – scrive invece Primo Levi, nel suo racconto “Carbonio” -, benché raramente essa venga così descritta: un inserirsi, un derivare a suo vantaggio, un parassitare il cammino in giù dell’energia dalla sua nobile forma solare a quella degradata di calore a bassa temperatura. Su questo cammino all’ingiù, che conduce all’equilibrio e cioè alla morte, la vita disegna un’ansa e ci si annida.
    Ecco, io credo che in questo momento sta a noi decidere (non sono tante le occasioni in cui all’Umanità vien dato veramente di pensarsi alla prima persona plurale, questa è una di quelle): vogliamo permanere – non necessariamente per sempre; ma, ancora un po’ – in quest’ansa ricavata nel cammino all’ingiù dell’entropia, in attesa del mattino prossimo venturo? Allora disponiamoci a ripartire: ma non certo dal punto interrotto, come nulla fosse, per proseguire nella stessa direzione in cui eravamo follemente avviati – verso l’autodistruzione. Disponiamoci a ripartire dalle tante scoperte di questa lunga notte: dalla bellezza del silenzio e da quella del dialogo, della condivisione, della socialità e delle relazioni personali; dal valore della competenza, dell’esperienza e dell’inventiva – in campo scientifico come in quello culturale e artistico -, dalla solidarietà e dedizione valori inestimabili, dal concetto prezioso di “bene comune” – che si tratti del Servizio Sanitario o del sistema educativo o dei Servizi Sociali – da sostenersi pagando tutti le tasse; dal calo delle emissioni di CO2 … Ci siamo capiti.
    Oppure … è giunta forse l’ora di adeguarsi alla curva entropica, che conduce “all’equilibrio e cioè alla morte”: questo è quanto accadrà se il linguaggio “guerresco” resterà radicato nelle nostre menti, se non sapremo vederci nel tempo della liberazione, del dopo guerra – allora ci servirà una società rigida, “dura”, capace di opporsi con mezzi “bellici” sempre più “vigorosi” alle successive crisi – che di certo arriveranno, sempre più frequenti, ravvicinate. Ci servirà una società in cui la gestione del potere sappia essere prima di tutto efficiente. Poi, … più efficiente. Chi sono stati “i più bravi” ad affrontare la crisi? I cinesi – possiamo già dirlo con buone probabilità di riscontro. Dunque, quello è il modello di società da seguire …
    Non so. Di una cosa sono certo: nulla, sarà “come prima”. Lo vedo negli occhi della gente che incontro per strada o al negozio, quando esco per fare la spesa, sopra il naso coperto dalla mascherina. Credo che mai, i nostri neuroni a specchio siano stati sollecitati come in questi giorni: la sorpresa di “vedere” per la prima volta che l’altro – tutti gli altri – sono io; e che ognuno è, per l’altro, insieme oggetto di curiosità, d’interesse, di desiderio, di gratitudine per il solo fatto di esserci, essere lì a vendermi le sigarette, o a comprare il pane che gli vendo – e di paura; perché ognuno può essere “l’assassino” – cioè, io sono, forse, l’assassino.
    “Non c’è notte sì lunga …” La paura è positiva, a patto di non entrare in cortocircuito e trasformarsi in angoscia autodistruttiva o in aggressività immotivata. Ora che ci penso – di un’altra cosa, sono abbastanza fiducioso: quando tutto questo sarà passato, i cineasti di tutto il mondo ci sapranno proporre una quantità di horrors di magnifica, inusitata creatività e suggestione.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *