La dimensione politica dell’amore

 

di Marco Deriu

Docente di “Sociologia della comunicazione politica e ambientale” presso il Dipartimento di Discipline Umanistiche, Sociali e delle Imprese Culturali dell’Università di Parma. Presiede il Corso di Laurea Magistrale di Giornalismo, cultura editoriale e comunicazione multimediale.

 

«Anche nella politica c’è spazio per amare con tenerezza» ha scritto Papa Francesco nella sua Enciclica “Fratelli tutti” (FT. 194). Può sembrare questa un’affermazione avventata in un tempo in cui il solo mostrare un senso di empatia, di rispetto o di solidarietà nello spazio pubblico – non a caso spesso lo spazio della politica viene indicato nel gergo giornalistico col nome di “arena politica” – rischia di suscitare immediatamente accuse di “buonismo” o di “populismo”.

Ma non si tratta affatto di un’affermazione ingenua, ma semmai una vera e propria sfida, un ingaggiarsi frontalmente con il linguaggio e le categorie di pensiero che le forze xenofobe hanno saputo imporre nell’immaginario pubblico negli ultimi vent’anni. A forza di ripetizioni, tali “frames” linguistici hanno fissato una sorta di senso comune divenuto incapace di fare i conti con la realtà fino alla più feroce ed insensata deformazione per cui le responsabilità dei naufragi sarebbero da addebitare al “buonismo” delle ONG e della “sinistra” e non all’eclissarsi del senso di responsabilità delle istituzioni politiche ed economiche di fronte alle cause delle migrazioni forzate e all’obbligo fondamentale di salvare le persone che si trovano in pericolo durante la navigazione. «Trecento morti di buonismo», ha titolato il Giornale nella sua edizione del 4 ottobre 2013 di fronte al naufragio di Lampedusa o «Settecento morti di buonismo. È la più grande tragedia dell’immigrazione», ha ribadito senza dubbi, lo stesso quotidiano, il 20 aprile 2015 di fronte all’ennesima strage al largo della Libia. Un’assurdità certamente, ma anche un esempio paradigmatico di quello che ricordava il celebre linguista George Lakoff, ovvero che quando si è completamente introiettato un “frame”, una particolare narrazione, si finisce con l’ignorare o occultare tutti i fatti o le realtà che la contraddicono: «I progressisti tendono a credere che sia sufficiente comunicare i fatti nudi e crudi. Ma non è così. I fatti sono importanti, ma quello che conta è la loro rilevanza morale. Le persone si identificano con le loro convinzioni morali più che con i fatti».[1]

Se il linguaggio politico xenofobo accusa dunque politici e organizzazioni non governative di essere troppo deboli e accondiscendenti, Papa Francesco procede dunque nella direzione contraria, quella di rilanciare con forza un quadro di convinzioni morali differenti. Non solo riafferma uno spazio per la tenerezza e per quella che chiama “amicizia sociale” nelle pratiche politiche, ma sostiene che «La tenerezza è la strada che hanno percorso gli uomini e le donne più coraggiosi e forti» (FT. 194).

Ricostruire un linguaggio pubblico differente

Il tentativo di introdurre nuove parole, di spostare la discussione su un terreno semantico differente risponde ad una necessità impellente, quella di ricostruire un linguaggio pubblico adatto ad affrontare la complessità delle crisi che ci circondano e capace di sostenere lo sforzo di prendersi cura del mondo e di riconoscerci parte di una medesima “casa comune”. Come ha scritto Mark Thompson, infatti, «le nostre strutture civiche, le nostre istituzioni e organizzazioni, sono organismi viventi del linguaggio pubblico, e quando cambia la retorica loro fanno altrettanto. La crisi della nostra politica è una crisi del linguaggio politico».[2]

Così Papa Francesco reinterroga non solo la categoria di “fraternità”, ma tutta una costellazione di vocaboli ed espressioni: “prossimo”, “amicizia sociale”, “ascolto”, “riconoscimento”, “popolo”, “gesti di cura”, “fragilità”, “casa comune”, “famiglia umana”, “amore politico”, “cittadinanza”, “dono”, “carità”, “accoglienza”, “dignità”, “riconoscimento”, “gentilezza”, “perdono”, “conflitto inevitabile”, “lotte legittime”, “memoria”, “perdono”, “pace”. Insomma, un intero vocabolario politico che si dispiega pagina dopo pagina e che getta uno squarcio su come può essere ripensata una visione politica all’altezza delle numerose crisi che viviamo.

Per rendere alcune di queste parole ancora utilizzabili occorre tuttavia ripulirle dalle scorie che si sono depositate nell’uso recente, cercando in questo modo di rompere associazioni o assonanze fuorvianti e di rendere visibili altri connessioni e legami più profondi. Francesco cerca per esempio di mostrare come l’ascolto e l’interpretazione del sentire del “popolo” sia un fattore fondamentale che degenera in “populismo” solamente quando è strumentalizzata e piegata ai propri interessi di parte e alla ricerca del potere. Un sentire “popolare” non è dunque necessariamente né cieco né grezzo: «[…] né quella di popolo né quella di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società civile» (FT. 163). Anzi, la carità «riunisce entrambe le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale – dal momento che implica un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli apporti professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e così via» (FT. 164).

Dai gesti di cura alla necessità di rinnovare le istituzioni

Così mentre richiama ai gesti di cura e al dono del proprio tempo sul piano delle interazioni interpersonali, nello stesso tempo Papa Francesco sottolinea che la carità non esclude anzi richiede il ruolo delle istituzioni affinché con le loro risorse possano generare e organizzare la solidarietà verso i fratelli e le sorelle più lontane. «L’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore» (FT. 181). Se il punto di partenza è quell’amore “elicito”, che procede direttamente e spontaneamente da una spinta e da una volontà personale, questo tuttavia deve essere integrato da un amore “imperato”, ovvero da quello sforzo teso a creare consapevolmente istituzioni più sane, ordinamenti più giusti, strutture più solidali, ovvero tutte quelle realtà collettive che permettono di prevenire la miseria e le situazioni di indigenza.

In altre parole, la strada verso la fraternità universale e la pace sociale passa senza dubbio per la ricerca di una “buona politica”. In questo senso, l’amore sociale è quella forza «capace di suscitare nuove vie per affrontare i problemi del mondo d’oggi e per rinnovare profondamente dall’interno strutture, organizzazioni sociali, ordinamenti giuridici» (FT. 183). Dunque, non si tratta qui solamente di estendere il proprio sforzo nella vita politica coinvolgendo le istituzioni. Si tratta invece di immaginare un cambiamento – oggi diremmo una “transizione” – che rimetta in discussione le stesse istituzioni e strutture perché esse stesse, nelle loro cristallizzazioni, nelle loro logiche, nei loro tempi e forme organizzative, portano il segno dell’indifferenza, dell’ingiustizia e dell’esclusione. Il tema della “conversione” – potremmo dire- investe in questa prospettiva non solo i cuori e le persone, ma anche le stesse istituzioni politiche e democratiche.

Passo dopo passo, si rivelano quindi i tratti attraverso cui si definisce l’idea di una dimensione politica dell’amore, secondo Francesco. Si tratta di una politica capace di alzare ed ampliare lo sguardo, di riconoscere le interconnessioni tra la crisi sanitaria, quella ecologica, quella sociale, quella economica e quella politica. Capace, dunque, di portare avanti un «nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi» (FT. 177). Questo significa anche saper leggere i conflitti, riconoscere le gravi carenze strutturali che richiedono scelte e interventi coraggiosi e non meri rattoppi o interventi ad hoc. In altre parole, una politica di questo tipo dev’essere in grado di superare la miopia e la chiusura sia spaziale che temporale a cui le tradizionali forme di amministrazione che conosciamo ci hanno abituato. L’idea di una politica integrale ci deve portare quindi a riconoscere le forme di fratellanza e solidarietà verso popoli lontani ma anche verso generazioni future contrastando le forme di ingiustizia e saccheggio del presente e del futuro. I politici sono infatti chiamati a «prendersi “cura della fragilità, della fragilità dei popoli e delle persone”» (FT. 188).

Se la politica aiuta a mutare lo sguardo

La tragedia globale della pandemia di Covid-19 ha smascherato da questo punto di vista la nostra comune vulnerabilità, ha messo in crisi le nostre sicurezze, e per quanto si cerchi di rimuoverlo ci ha ricordato che, da ultimo, la nostra stessa vita dipende dal lavoro, dai comportamenti e dalle scelte di tutti gli altri. Per questo «prendersi cura del mondo che ci circonda e ci sostiene significa prendersi cura di noi stessi» (FT. 17). Ma questa verità implicita non è scontata, ha bisogno di essere non solo ricordata ma anche “sentita” in profondità, per evitare di tornare a rifugiarci alla prima occasione nei propri illusori “interessi particolari”. Per questo motivo, ci ricorda Francesco, dobbiamo di fatto «costituirci in un “noi” che abita la Casa comune». In questa direzione è indispensabile un mutamento dello sguardo che ci aiuti a cogliere la dignità dell’altro, nel suo stile, nella sua diversità. Produrre questo mutamento dello sguardo, aiutarci a pensarci come un “noi”, nella sua diversità e complessità, una grande famiglia in cui ciascuno ha bisogno del punto di vista dell’altro per comprendere meglio anche sé stesso e i propri bisogni ed aspirazioni, è in fondo, ci ricorda Francesco, esattamente «il nucleo dell’autentico spirito della politica» (FT. 187).

  1. George Lakoff, Pensiero politico e scienze della mente, Bruno Mondadori, Milano, 2009, p. 43.
  2. Mark Thompson, La fine del dibattito pubblico. Come la retorica sta distruggendo la democrazia, Feltrinelli, Milano, 2017, p. 29.

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