Una riflessione elicoidale

 

Di Matteo Truffelli

Professore Associato di Storia delle Dottrine politiche presso l’Università di Parma, è Presidente nazionale dell’Azione Cattolica Italiana dal maggio 2014.

 

Addentrarsi nella lettura della Fratelli tutti – un testo ampio, molto articolato, ricco di spunti che si incrociano e si richiamano a vicenda – non è un’operazione scontata. Se da un lato, infatti, Francesco utilizza quel linguaggio semplice, concreto, comprensibile a tutti a cui ci ha abituati in questi anni, dall’altro anche questa enciclica, come molti testi fondamentali del suo magistero, è strutturata in maniera complessa, e tale da sollecitare continuamente il lettore a passare dalla sfera personale alla dimensione comunitaria, dai grandi processi interstatali alle dinamiche dei rapporti sociali, dal piano spirituale a quello culturale e politico, dal piccolo al grande e viceversa. Spazi e processi di cui Francesco sottolinea implicitamente la forte interconnessione, come ambiti che si contengono gli uni negli altri, l’uno legato all’altro, l’uno decisivo per l’altro.

Il lettore abituato ad attendersi da un documento magisteriale un andamento rigoroso e ordinato, con la cadenza geometrica di un trattato, potrebbe forse avvertire il timore di perdersi mentre si avventura nei meandri di un ragionamento che, invece, intreccia in maniera non lineare una molteplicità di argomenti e a volte dà l’impressione di tornare sui propri passi, con spunti di riflessione che sembrano rincorrersi tra loro. A una lettura attenta ci si accorge però che in realtà il discorso scende via via più in profondità, con un andamento elicoidale, e che le diverse parti dell’enciclica compongono un quadro pluridimensionale, nel quale i diversi spunti si fermentano e si chiariscono a vicenda e, al tempo stesso, aprono ulteriori squarci di riflessione. È l’applicazione, verrebbe da dire, di quel «pensiero incompiuto» e dialogico proposto più volte da Francesco come modello ideale dell’azione intellettuale e spirituale[1].

Anche altri importanti testi di Francesco, come si è accennato, hanno questa caratteristica, a partire dal “manifesto programmatico” del suo pontificato, l’esortazione post-sinodale Evangelii gaudium. Nella Fratelli tutti, tuttavia, questo aspetto sembra ancora più marcato. E forse non si tratta di un caso, ma di un effetto del tema affrontato. Mi pare, infatti, che alcune caratteristiche dell’idea di fraternità proposta da Francesco concorrano ad accentuare un simile andamento dei suoi ragionamenti.

La fraternità come punto di partenza, traguardo e via

La prima di queste caratteristiche è che la fraternità, quantomeno nella visione di essa che Francesco sembra far propria, costituisce sempre, al tempo stesso, una condizione costitutiva del nostro essere e un traguardo a cui tendere. Dato originario del nostro stare nel mondo e vocazione da maturare giorno per giorno, radice profonda del nostro esistere e obiettivo di un itinerario che non può mai compiersi del tutto. Ma non solo. La fraternità è anche, e forse più di ogni altra cosa, la via da percorrere per crescere in umanità. È dunque al contempo il punto di partenza, l’orizzonte a cui tendere e la strada con cui avvicinarci a esso. Un percorso fatto dall’esercizio giornaliero di scelte concrete e ripetute, mai scontate, mai acquisite una volta per tutte. Azioni e pensieri che ci educano e a cui occorre educarci. Una forma di lotta contro l’ingiustizia e la possibilità di redenzione che è alla portata di ciascuno. Il modo con cui stare dentro i conflitti del nostro tempo e la via per poterci riconciliare spingendoci oltre essi. Come ha scritto recentemente Edgar Morin – in profonda e, a quanto è dato di sapere, non casuale sintonia con l’enciclica – «la fraternità, mezzo per resistere alla crudeltà del mondo, deve diventare scopo senza smettere di essere mezzo. Lo scopo non può essere un termine, deve diventare il cammino, il nostro cammino, quello dell’avventura umana»[2]. E questo, sottolinea Francesco, vale tanto nello spazio ristretto della prossimità personale quanto in quello globale dei rapporti tra i popoli, e tra gli stati, passando per quello dei legami sociali e dei contrasti tra i cittadini e tra i gruppi di cittadini.

Ecco allora un’altra possibile ragione del continuo passare, nell’enciclica, dalla dimensione della coscienza a quella della politica, dalla sfera delle relazioni interpersonali a quella dei rapporti tra gli stati, dall’universale al particolare e viceversa. Parlare di «fraternità aperta» (FT, 1) significa parlare di un’esperienza che è sempre necessariamente particolare e universale, singolare e collettiva. In ognuna di queste dimensioni «abbiamo bisogno di comunicare, di scoprire le ricchezze di ognuno, di valorizzare ciò che ci unisce e di guardare alle differenze come possibilità di crescita nel rispetto di tutti. È necessario un dialogo paziente e fiducioso, in modo che le persone, le famiglie e le comunità possano trasmettere i valori della propria cultura e accogliere il bene proveniente dalle esperienze altrui» (FT, 134).

Un lavoro da artigiani

Pensata in questo modo, la fraternità implica sempre un riconoscimento dell’altro che sia anche riconoscenza per il suo esserci. Chiunque abbia fratelli e sorelle, del resto, sa perfettamente che non li si sceglie, ma ce li si trova accanto: ciascuno con il proprio carattere, i propri desideri, i propri bisogni, i propri spigoli. Fraternità è dunque un dono, inscritto nella nostra identità, ma è anche una conquista, o meglio, una resa. Per i credenti, in particolare, una resa alla condizione di figli di un Dio creatore, che è Padre e Madre, «poiché una fraternità priva del riferimento ad un Padre comune, quale suo fondamento ultimo, non riesce a sussistere. Una vera fraternità tra gli uomini suppone ed esige una paternità trascendente»[3]. Solo quando ci riconosciamo figli, in questa prospettiva, possiamo comprendere in radice cosa significa essere fratelli. È la lezione ammonitrice della parabola del padre misericordioso nel capitolo 15 del Vangelo di Luca: ciò che impedisce al fratello maggiore di gioire per il ritorno del “figliol prodigo”, ciò che non gli consente di andare al di là di una concezione aritmetica e utilitaristica della giustizia, ciò che gli impedisce, in una parola, di sentirsi fratello del proprio fratello, è l’incapacità di vedere e accogliere la sovrabbondanza dell’amore gratuito del padre. Ma anche per chi non crede, forse, la conquista della fraternità come modo di essere, di relazionarsi, di pensare l’esistenza e il destino dell’umano si radica in una resa alla presenza dell’altro, mistero che concorre a definire chi siamo e di cosa abbiamo realmente ed essenzialmente bisogno.

Proprio in quanto riconoscimento e riconoscenza per la presenza dell’altro, però, la fraternità è anche un’arte difficile da apprendere, una scelta che occorre praticare con fedeltà e, in un certo senso, con sacrificio. Pensare la fraternità come un percorso significa pensarla come un procedere mai uguale a sé stesso, e inevitabilmente accidentato: «un cammino perseverante, fatto anche di silenzi e di sofferenze, capace di raccogliere con pazienza la vasta esperienza delle persone e dei popoli». Per questo bisogna fare i conti con «il problema […] che una via di fraternità, locale e universale, la possono percorrere soltanto spiriti liberi e disposti a incontri reali» (FT, 50).

Si capisce allora che la fraternità è materia da «artigiani» (Cfr. FT, 228-232). Perché richiede una cura attenta alla specificità di ogni situazione e di ogni persona, di ogni contesto sociale e di ogni storia. Richiede capacità creativa e senso della realtà, per non lasciarsi tentare dalla convinzione di poter applicare modelli standard di comportamento, regole uniformi fissate una volta per tutte e valide sempre e in ogni caso. La prospettiva della fraternità non accetta la logica della lavorazione in serie, ma chiede la pazienza del cesello, di chi è sempre pronto a rivedere e ritoccare la propria realizzazione in corso d’opera, progettandola e riprogettandola di nuovo. Perché coltivare la fraternità come via di umanizzazione implica il riconoscimento della unicità di ogni sorella e fratello con cui si entra in rapporto, così come di ogni contesto politico, economico o culturale con cui ci si relaziona.

Via per abitare una realtà poliedrica

Troviamo qui una chiave utile anche per intendere il senso dell’insistenza con cui Francesco esprime giudizi critici nei confronti di un modello di globalizzazione «che mira consapevolmente a un’uniformità unidimensionale e cerca di eliminare tutte le differenze e le tradizioni in una superficiale ricerca di unità» (FT, 100). La via artigianale della fraternità, pensata e proposta da Francesco, non può condurre all’omologazione. Essa, al contrario, passa necessariamente per l’accoglienza e la valorizzazione della differenza, la custodia e l’ascolto di ogni identità, irriducibilmente singolare, personale o collettiva che sia. E questo implica la disponibilità a farsi carico del conflitto, senza ignorarlo o dissimularlo, senza fuggirne, ma assumendo invece la fatica di «risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo»[4]. Un impegno che non accetta semplificazioni, omologazioni e spersonalizzazioni. Abitare il conflitto per generare dentro di esso esperienze di riconciliazione obbliga a tenere in considerazione ogni punto di vista, ogni sfaccettatura, accettando e anzi valorizzando la poliedricità della realtà, poiché «è vero che le differenze generano conflitti, ma l’uniformità genera asfissia» (FT, 191).

È significativo, in questo senso, che la Bibbia racconti che proprio Caino – il primo ad avere spezzato il legame di fraternità – dopo essere stato messo davanti a sé stesso e alla propria responsabilità dallo sguardo del Signore partì per fondare una città. Una realtà cioè che per sua natura è contrassegnata dalla pluralità, dalla differenza, dalla convivenza tra persone che non sperimentano immediatamente il legame che le unisce, e che perciò quel legame lo devono cercare, lo devono rigenerare. È nello spazio creato per la coesistenza tra i diversi, tra coloro che non abitano la stessa casa, che occorre riscoprire e ricostruire il sentimento fraterno come una strada imboccata per scelta, come stile di vita, come via di riconciliazione e di salvezza per la nostra umanità. La fraternità di cui parla Francesco non è quella di chi sta bene solo con i propri fratelli, con coloro che la pensano già alla stessa maniera, hanno gli stessi interessi, credono nello stesso Dio. Non è un legame che si stabilisce tra «soci», ma tra estranei (Cfr. FT, 101-105). E proprio per questo essa, per quanto apparentemente irrealizzabile e controfattuale, rappresenta l’unica «via d’uscita» che possiamo imboccare «davanti a tanto dolore, a tante ferite» del mondo contemporaneo (FT, 67). L’unica alternativa possibile al drammatico paradosso del nostro tempo messo in evidenza Benedetto XVI e che, sottolinea Francesco, la pandemia ha reso ancora più stridente: «“la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”. Siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza» (FT, 12). È nella fraternità che chiunque – persone, gruppi, società, nazioni – può uscire dalla solitudine della «tristezza individualista» (che in Evangelii gaudium Francesco indicava come «il grande rischio del mondo attuale» e il principale ostacolo alla missione evangelizzatrice della Chiesa)[5] per sentirsi parte della grande famiglia umana. Senza per questo perdersi nell’indifferenziazione di un «universalismo autoritario e astratto» (FT, 100). La fraternità si nutre di diversità, perché riconosce la pluralità come ricchezza. Il mondo che ha in mente Francesco – come già aveva spiegato nella quarta parte della Evangelii gaudium – non assomiglia a una sfera, asettica e perfetta, ma a un «poliedro», in cui «le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze» (FT, 215).

  1. Francesco ha sottolineato in più occasioni l’importanza di coltivare un «pensiero incompiuto», aperto a ulteriori sviluppi, che preveda il contributo dialogico dei possibili interlocutori. Cfr. ad esempio il suo Discorso alla comunità della Pontificia Università Gregoriana e ai consociati del Pontificio Istituto Biblico e del Pontificio Istituto Orientale, 10 aprile 2014.
  2. E. Morin, La fraternità, perché. Resistere alla crudeltà del mondo, Ave, Roma 2020, p. 56. Sulla consonanza tra Morin e Francesco si veda la densa Postfazione di Sergio Manghi presente ivi, pp. 57-71.
  3. Francesco, Messaggio per la celebrazione della xlvii Giornata mondiale della pace. Fraternità, fondamento e via per la pace, 8 dicembre 2013.
  4. Francesco, Evangelii gaudium, 227.
  5. Ivi, 2.

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