Artigiani di pace. Fratelli tutti e la costruzione della fraternità fra nazioni

Aluisi Tosolini

Per la giornata mondiale della pace del 1° gennaio 2021 papa Francesco così ha titolato il suo messaggio: «La cultura della cura come percorso di pace». È a partire dalla parola pace, e del suo risuonare dentro la logica della cura, che tento una rilettura dell’enciclica Fratelli tutti. Enciclica direttamente ispirata alla figura di san Francesco, che «dappertutto seminò pace e camminò accanto ai poveri, agli abbandonati, ai malati, agli scartati, agli ultimi, e seppe far cader le frontiere anche nella sua visita al Sultano Malik-al-Kamil affrontato col medesimo atteggiamento che esigeva dai suoi discepoli: che, senza negare la propria identità, trovandosi “tra i saraceni o altri infedeli […], non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio”» (3).

La pace nella Fratelli tutti

Oggi, secondo papa Francesco, siamo chiamati ad incamminarci lungo le strade di un nuovo incontro: «percorsi di pace che conducano a rimarginare le ferite. C’è bisogno di artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia» (225).

I tratti di questi percorsi sono esplicitati chiaramente:

  1. a) i conflitti non possono essere né negati né dimenticati;
  2. b) occorre ricominciare dalla verità, anche storica: «la verità è una compagna inseparabile della giustizia e della misericordia» (227);
  3. c) il percorso di costruzione della pace non è un percorso di omogeneizzazione: la pluralità di progetti di società è ricchezza;
  4. d) il cammino verso una migliore convivenza chiede sempre di riconoscere la possibilità che l’altro apporti una prospettiva legittima – almeno in parte –, qualcosa che si possa rivalutare, anche quando possa essersi sbagliato o aver agito male (228);
  5. e) un’autentica pace si può ottenere solo quando lottiamo per la giustizia attraverso il dialogo, perseguendo la riconciliazione e lo sviluppo reciproco (229);
  6. f) la sfida è superare ciò che ci divide senza perdere la nostra identità (230);
  7. g) non basta una architettura di pace ma occorrono anche artigiani di pace (231): l’architettura è costituita dalle istituzioni e dai passi istituzionali che tuttavia richiedono il concreto, fattivo, caldo impegno di ognuno chiamato a svolgere «un ruolo fondamentale, in un unico progetto creativo, per scrivere una nuova pagina di storia, una pagina piena di speranza, piena di pace, piena di riconciliazione».
  8. h) il percorso non ha mai termine: il cammino della costruzione della pace, nella costruzione dell’unità di una società, non è mai dato una volta per sempre. Occorre continuamente lottare per favorire la cultura dell’incontro, che esige di porre al centro di ogni azione politica, sociale ed economica la persona umana, la sua altissima dignità, e il rispetto del bene comune (232)

Alienum est a ratione

La riflessione teologica sulla pace non può essere riassunta in poche righe. È tuttavia necessario collocare il pensiero di papa Francesco dentro la grandissima trasformazione avvenuta dal Concilio Vaticano II in avanti.

Come è noto si deve a san Tommaso d’Acquino la definizione di guerra giusta e delle tre condizioni fondamentali per la liceità della guerra da parte di coloro che vi sono ingiustamente costretti: a) l’autorità legittima che la dichiari; b) la giusta causa, ossia un motivo proporzionatamente grave; c) la retta intenzione, cioè la prosecuzione di un bene morale universalmente valido, o l’espulsione di un male dello stesso genere. A queste tre condizioni (che riguardano la liceità, lo jus ad bellum) Tommaso ne aggiunge una quarta riferita alla conduzione, ovvero la necessità di rispettare la proporzionalità tra proporzione fra l’offesa subita e la risposta armata (Summa Theologica IIª-IIae q. 40 a. 1 s. c.).

La teoria di Tommaso, nel contesto in cui è nata, non era certo un inno alla guerra ma, al contrario, rispondeva alla necessità di limitarla il più possibile. È del resto a Tommaso che si richiama il teologo Francisco de Vitoria (1483-1546) che assieme a Francisco Suarez condanna le guerre e le violenze correlate alla conquista delle Americhe.

E in parte le riflessioni di Tommaso, a motivo del mutato contesto in cui si collocano le guerre contemporanee, spingeranno prima Giovanni XXIII con l’Enciclica Pacem in Terris (1963) e poi il Concilio Vaticano II con la Gaudium et Spes (1965), a mutare radicalmente il giudizio sulla guerra.

A partire dalla sottolineatura cruciale della centralità del bene comune (cfr. PT 56) si arriva così ad asserire che la guerra totale (ovvero in primis la guerra nucleare) alienum est a ratione (GS 80). È fuori da ogni razionalità. E la stessa legittima difesa, scrive la Gaudium et Spes, nella situazione attuale deve fare i conti con limiti oggettivi determinati dai rischi di distruttività totale, anche se agli stati non può essere negata: «fintantoché esisterà il pericolo della guerra e non ci sarà una autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa» (GS 79). Nello stesso tempo, visto che la pace non è la semplice assenza di guerra (GS 78), va ricordato che «L’edificazione della pace esige prima di tutto che, a cominciare dalle ingiustizie, si eliminino le cause di discordia che fomentano le guerre» (GS 83). 

Ingerenza umanitaria

Attorno agli anni ’90 del secolo scorso, anche con riferimenti a crisi quali quella somala e dell’ex Jugoslavia, si impone nel dibattito pubblico il concetto di ingerenza umanitaria che viene assunto anche dalla chiesa. Papa Giovanni Paolo II ne definì chiaramente il perimetro: a) un simile intervento non implica immediatamente azioni militari; b) deve essere un’operazione difensiva, mirata alla protezione delle popolazioni e degli aiuti umanitari e al disarmo dell’aggressore; c) non deve causare mali maggiori di quelli già provocati dalla guerra in corso; d) deve essere condotta dall’Onu, cioè dall’organizzazione di tutte le nazioni del mondo.

E il 5 novembre 1995, all’ONU, dichiarò: «Occorre che l’Organizzazione delle Nazioni Unite si elevi sempre più dallo stadio freddo di istituzione di tipo amministrativo a quello di centro morale, in cui tutte le nazioni si sentano a casa loro, sviluppando la comune coscienza di essere, per così dire, “famiglia di nazioni” nella quale non esiste il dominio dei più forti».

Una casa per la famiglia delle nazioni

Il richiamo alla famiglia di nazioni ci riporta alla Fratelli tutti. Se la Pacem in Terris congeda l’antropologia hobbesiana dell’homo homini lupus rimettendo al centro quel bene comune che porta alla dichiarazione di “irrazionalità” della guerra totale della Guadium et spes, la riflessione sulla responsabilità e sui doveri di ognuno di noi nei confronti dei diritti di tutti non può eludere il tema della violenza e della guerra.

E allora qui torna la figura di san Francesco di Assisi così come delineata da papa Francesco in apertura della sua enciclica Fratelli Tutti: «in un mondo pieno di torri di guardia e di mura difensive dove le città vivevano guerre sanguinose tra famiglie potenti e vedevano crescere le zone miserabili delle periferie escluse, Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti» (4).

Francesco, il poverello di Assisi, diventa così il modello dell’artigiano di pace, del costruttore della società umana in cui tutti sono davvero fratelli e sorelle perché ognuno ha rimosso il desiderio del dominio sull’altro.

Perché, biblicamente, proprio il desiderio del dominio sull’altro e il diniego della responsabilità nei confronti dell’altro (sono forse io il custode di mio fratello?  – Gn 4,9) sono alla radice della violenza e della guerra. Ed è da qui che occorre ripartire, sia a livello individuale che sociale.

In caso contrario l’orizzonte che abbiamo davanti è quello lucidamente delineato nella Fratelli tutti: «Guerre, attentati, persecuzioni per motivi razziali o religiosi, e tanti soprusi contro la dignità umana giudicati in modi diversi a seconda che convengano o meno a determinati interessi, essenzialmente economici. Ciò che è vero quando conviene a un potente, cessa di esserlo quando non è nel suo interesse. Tali situazioni di violenza vanno moltiplicandosi dolorosamente in molte regioni del mondo, tanto da assumere le fattezze di quella che si potrebbe chiamare una “terza guerra mondiale a pezzi”» (25).

E così non c’è da stupirsi se ciò che ne esce distrutto, con la «mancanza di orizzonti in grado di farci convergere in unità», è «lo stesso progetto di fratellanza, inscritto nella vocazione della famiglia umana» (26).

Aluisi Tosolini

Dirigente scolastico del Liceo Attilio Bertolucci di Parma

 

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