Il “sogno di una cosa” e la cultura dell’incontro

di Maria Inglese

Medico psichiatra, già responsabile dell’UOS Salute Mentale e Dipendenze patologiche negli II.PP. di Parma; attualmente referente del Centro Studi e Ricerche del DAISM-DP. Si occupa di formazione e supervisione a gruppi di lavoro. Formata alla mediazione umanistica dei conflitti e alla mediazione etnoclinica.

 

«Ispiraci il sogno di un nuovo incontro»

(FT, Preghiera finale)

La lettura della nuova enciclica di papa Bergoglio, Fratelli tutti, si inscrive in quel dialogo interreligioso che il pontefice coltiva dall’inizio del suo insediamento. Un dialogo, la forma relazionale del discorso, non solo argomentativo, non solo teorico, ma anche un dialogo tra l’autore e i suoi lettori. La forma utilizzata in questo scritto ricorda le note di un diario, di un quaderno, dove gli appunti sono come le tracce, le orme, di chi ci precede in un cammino in salita. Magari al buio, magari in una terra inesplorata. Dietro alle orme ci siamo noi, lettori, interessati al dialogo, preparati all’incertezza della scoperta.

Papa Francesco e le sue scritture sono diventate riferimento per tante riflessioni in ambito sociale, antropologico, ambientale, politico e anche economico. Dalla Laudato si’, appello al prendersi cura del nostro pianeta e del vivente, fino a Querida Amazonia, un appello per la tutela delle popolazioni indigene, le vere custodi del creato, per arrivare alla Fratelli tutti, dove ci invita a celebrare l’amicizia sociale, la fratellanza politica, l’alleanza gentile.

Nel mio contributo intendo esplorare l’invito presente nella preghiera che chiude lo scritto del pontefice, nella quale ho sentito un richiamo alla pratica di una cultura dell’incontro, nella realizzazione di un sogno che è possibile oggi sognare insieme.

Il sogno di una cosa

Pier Paolo Pasolini mette come citazione del suo primo romanzo, Il sogno di una cosa[1], questa frase di Marx:

«Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non per mezzo di dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a sé stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà chiaro come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza per possederla realmente» (Karl Marx, Lettera a Arnold Ruge, settembre 1843).

Da sempre il sogno di una cosa sta davanti all’umanità. Una umanità che per il filosofo tedesco assume lo sguardo dolente del proletariato sfruttato, disumanizzato, “prodotto” dalla rivoluzione industriale. Si tratta della stessa dolente umanità che il Jack London saggista-reporter racconterà nel suo Il popolo dell’abisso del 1902[2]. Riesce facile accostare tali scritture, Marx, London, Pasolini, al testo di papa Bergoglio, il quale insiste sulla necessità di occuparci del destino dei soggetti più sofferenti del nostro mondo, gli scarti, gli invisibili, i migranti, le popolazioni native. Soggetti che oggi, nel tempo del Covid, pagano più di altri le conseguenze di una pandemia che accentua le disuguaglianze e le differenze. Il sogno di una cosa sembra essere nel testo di Bergoglio il riappropriarci di un destino comune, fraterno, di figli. Già nelle prime pagine il papa scrive riferendosi a San Francesco, l’ispiratore essenziale della enciclica: «Egli non faceva la guerra dialettica imponendo dottrine […] in questo modo è stato un padre fecondo che ha suscitato il sogno di una società fraterna» (FT, 5).

E poco dopo, ricordando l’incontro ad Abu Dhabi con il Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb: «Consegno questa enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché, di fronte a diversi modi attuali di eliminare o ignorare gli altri, siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole» (FT, 6).

L’introduzione termina con l’invito a sognare insieme, tratto testualmente dal discorso tenuto a Skopje nell’Incontro ecumenico e interreligioso con i giovani nel 2019: «Ecco un bellissimo segreto per sognare e rendere la nostra vita una bella avventura. Nessuno può affrontare la vita in modo isolato» (FT, 8).

Il pontefice indaga quelle ombre di separazione che si sono abbattute sul nostro mondo, incupito da egoismi, voracità, sfruttamento, insensibilità, intristito dalle disuguaglianze che allontanano gli umani anche all’interno di uno stesso contesto di vita, nelle città e nelle comunità. I miraggi del progresso lasciano scorie, scarti, umanità ferite, assetate e affamate non solo di acqua e pane, anche di giustizia, democrazia, libertà, unità.

«Siamo tutti più soli», scrive Bergoglio; ce lo ricorda in piena pandemia, lo ha testimoniato nella sua preghiera in piazza San Pietro di fine marzo 2020. Siamo tutti più slegati, smarriti di fronte all’infrangersi di promesse inattese e ormai insostenibili. Non c’è peggiore alienazione, scrive Bergoglio, «che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno». L’invito è a ritessere legami, ricucire separazioni, rigenerare alleanze tra le generazioni e le comunità. Un sogno da risognare, appunto, perché il precedente, un incubo più che un sogno, ci ha portati a quello che Mauro Magatti definisce lo shock pandemico (il terzo shock globale, dopo quello economico e quello “terroristico”).

Il papa ci ricorda gli effetti di una economia dis-umana che produce scarti: «Certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione…» (FT, 18). Scarti che sono il frutto di scelte economico-finanziario-politiche dis-umane, ma che possono diventare il nostro inciampo, al quale non dobbiamo abituarci e al quale possiamo rispondere con la scelta di una strada diversa da percorrere.

La cultura dell’incontro

Viviamo un tempo caratterizzato da paure e conflitti. La paura è “passione triste” e rischia, oggi in modo evidente per lo shock pandemico, di trasformarsi in panico e in angoscia. Entrambe sono le facce esagerate, amplificate della paura: il pericolo perde la sua dimensione oggettiva e de-limitata, per uscire fuori da sé e diventare inafferrabile e diffuso. L’osservazione sulla paura di Bergoglio («Anche oggi, dietro le mura dell’antica città, c’è l’abisso, il territorio dell’ignoto, il deserto. Ciò che proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non è familiare, non appartiene al villaggio. È il territorio di ciò che è ‘barbaro’ da cui bisogno difendersi ad ogni costo» [FT, 27]) vale anche per i conflitti che separano, isolano e aprono la strada a disillusione, delusione, cinismo, disperazione. Come ci poniamo di fronte all’esasperazione dei conflitti in tutte le sue forme, da quelle più violente come le guerre e le persecuzioni, fino ai conflitti sui beni e le risorse, oppure i conflitti della coabitazione, cosiddetti “conflitti di seconda generazione”?

Oggi i conflitti della convivenza sono una vera urgenza per l’umano. In questa difficile coabitazione sperimentiamo le emozioni negative che li caratterizzano: paura, umiliazione, senso di ingiustizia, onore, risentimento, vendetta. Occorre riconoscere queste emozioni e dietro a queste le forme della violenza, anche quelle più “subdole”, quale il disprezzo per il diverso, per lo straniero, l’alieno, il marginale. Il papa parla infatti delle «periferie che si trovano vicino a noi», nella città, nel quartiere, nei luoghi di lavoro, nelle scuole. L’umano ignorato in questi contesti diventa, come scrive Bergoglio, il «forestiero esistenziale» (FT, 97).

Il papa accosta a questi temi la parabola del buon Samaritano e ci pone la domanda difficile: a quale dei personaggi della parabola finiamo per somigliare? Ci ricorda che ciascuno ha «qualcosa dell’uomo ferito, qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano» (FT, 69). Si tratta di quella dimensione non “tirannica” del nostro sé, bensì della polifonia di voci che abitano la nostra coscienza e alla quale, scegliamo di dare spazio o meno. Un ascolto che è quindi un ascolto del proprio mondo interno e che diventa in seguito pratica di disponibilità e di accoglienza gentile verso l’altro. Recuperare la gentilezza è possibile. Citando San Paolo il papa sottolinea come sia possibile scegliere parole e gesti che non umiliano e feriscono, bensì parole e gesti che sono «di incoraggiamento, che confortano, che danno forza, che consolano, che stimolano» (FT, 223). La gentilezza è una liberazione dalla crudeltà, scrive, dall’ansietà dall’indifferenza e dalla distrazione. Molte sono le esperienze che il papa cita come testimonianze di questa nuova cultura dell’incontro, dal Congo, al Sud Africa, alla Colombia, comunità ferite e segnate che non hanno seguito le “sirene” della vendetta. Esperienze di riconciliazione e di ricucitura che non negano il conflitto ma che diventano possibili a partire dal conflitto, senza cadere «nel circolo vizioso della vendetta o nell’ingiustizia di dimenticare» (FT, 252).

Il papa indica la via che ospita l’ascolto, il dialogo e l’attenzione e che definisce appunto la nuova «cultura dell’incontro» (FT, 30), un nuovo paradigma della relazione. L’ascolto, «caratteristico di un incontro umano, è un paradigma di atteggiamento accogliente, di chi supera il narcisismo e accoglie l’altro, gli presta attenzione, gli fa spazio nella propria cerchia» (FT, 48), apre alla possibilità dell’incontro con l’altro; in questo incontro, come in un poliedro, sono rappresentate emozioni negative, ma anche valori e interessi legittimi. In fondo ciascuno è impegnato nella propria lotta per definirsi, per riconoscersi e farsi ri-conoscere.

«La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita», scrive il papa citando la Samba dell’incontro di Vinícius de Moraes (FT, 215), e ci esorta ad insegnare alle generazioni future la «buona battaglia dell’incontro», sulla via tracciata non dal riconoscimento dei soli “diritti”. Il papa sottolinea con coraggio che questo tipo di battaglia, quella dei diritti, crea inevitabilmente separazione e gerarchie, quindi conflitti e violenze. Esiste un’altra battaglia che al contrario permette il riconoscimento tra umani, tra fratelli, e in questa battaglia è possibile riconoscere a ciascuno i bisogni naturali e necessari che reclama. Diritti senza frontiere li definisce il papa, diritti di tutti e soprattutto delle comunità degli esclusi, i veri «seminatori del cambiamento». Questo messaggio era già centrale nel testo Querida Amazonia e viene ripreso nella Fratelli tutti: sono loro, gli esclusi, i «promotori di un processo in cui convergono milioni di piccole e grandi azioni concatenate in modo creativo, come in una poesia» (FT, 169).

Vorrei infine concludere queste riflessioni sulla cultura dell’incontro nella Fratelli tutti con due citazioni di Sant’Agostino riprese in essa: la prima sul superamento della pena suppletiva che «non dà campo libero all’audacia della ferocia né sottrae la medicina del pentimento» (in FT, 265), la seconda, con parole che suonano poetiche ed evocative, su quella che il papa ha definito la nuova cultura dell’incontro e dell’ascolto: «L’orecchio vede attraverso l’occhio, e l’occhio ode attraverso l’orecchio» (in FT, 280). Occhi e orecchie, guardare e ascoltare: gli strumenti per la «buona battaglia» della nuova cultura dell’incontro.

  1. Pier Paolo Pasolini, Il sogno di una cosa, Garzanti, Milano, 1962.
  2. Jack London, Il popolo dell’abisso, Mondadori, Milano, 2014.

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