SULLA SORTE DEGLI ARCHITETTI

di Alessandro Bosi

L’espressione gli architetti andrebbero uccisi nella culla, che non conoscevo, sarebbe stata espressa, con evidente ironia, a una riunione in remoto nella quale si discuteva sul futuro della Cittadella di Parma e sui propositi del Comune.

Sull’argomento ho già espresso il mio parere in un articolo sollecitato da repubblica.it che Prospettiva ha riproposto il 30 ottobre 2020.

 

Ho saputo di quella battuta ieri sera mentre ero collegato, in remoto, per una riunione sulla Salute. Tra i presenti c’era un medico, di cui apprezzo i modi di unire con soave leggerezza vaste conoscenze e sapienza che, essendosi spostato nel suo appartamento, aveva sentito la battuta sugli architetti in un’altra riunione sul futuro della Cittadella (anch’essa in remoto, occorre dirlo?) alla quale partecipava la moglie. Rientrato nella nostra riunione, avendo trovato un motivo di connessione con le cose che si stavano dicendo, il medico l’ha riferita con la leggerezza che gli è propria e sulla quale non a caso mi sono soffermato.

 

L’ironia, si sa, mescola deliziosamente il vero e il falso.

Il vero della battuta è che si vorrebbe mantenere la Cittadella nella situazione attuale, senza toglierle un filo d’erba e, se gli architetti vi mettono mano, si sa, lo fanno per costruire.

Quanto al falso di quel luogo comune, dovremo chiederci se vale la pena di pensare ai luoghi dove viviamo. Personalmente credo che sia utile e doveroso. Per questo, nel 2011, ho proposto all’editore Antonio Battei, presidente dell’associazione che pubblica questo blog, di creare una collana editoriale intitolata Pensare la città che ora è giunta alla quattordicesima pubblicazione.

Sono dunque un convinto fautore dell’idea che la città sia oggetto di riflessione. E allora chiedo: si potrebbe pensare la città senza gli architetti?

 

Si dirà che gli architetti vivono se costruiscono e che, ai nostri tempi, dobbiamo preoccuparci di restituire suolo, terra, natura, la si chiami come si vuole, a un mondo afflitto da tante sofferenze che tutti abbiamo imparato a conoscere.

Così dicendo, si dice bene, non ho dubbi.

Ma credo che responsabili del male agire non siano gli architetti, fra i quali ne conosco parecchi che sottoscriverebbero la preoccupazione sullo stato di salute del mondo. Il problema è piuttosto il mandato che viene loro conferito.

Si dirà che a un architetto si chiede di costruire. Diversamente conviene rivolgersi a qualcun altro. E anche questo è vero. Ma nel mandato di costruire è forse necessariamente presente l’impegno di aggiungere materiali sottraendo suolo, terra, eccetera al nostro povero mondo? E se il mandato agli architetti contemplasse il vincolo di togliere materia già edificata, di agire insomma come gli scultori che, lo sappiamo, lavorano a togliere marmo, non a metterne?

 

Mi limito a due esempi.

Hanno una ragion d’essere gli edifici disabitati da lunga data e fatiscenti, le brutture senza alcun pregio, i manufatti che degradano l’ambiente? Certo che sì. Ma questa ragione non è paesaggistica, tantomeno sociale. La sola ragione della loro esistenza è che sono una proprietà di qualcuno che non sa come disfarsene. Una proprietà che non si vende e per la quale non si trovano i mezzi per renderla abitabile è un fardello per chiunque.

Ma è anche un massiccio di opere edilizie che occupa le città. Ai proprietari si dovrebbe chiedere di restituirle al decoro urbano. Se non hanno i mezzi per farlo, le proprietà dovranno essere espropriate e abbattute, nel caso siano giudicate irrecuperabili a qualsiasi uso. Nulla andrebbe invece abbattuto di ciò che è funzionale e utilizzabile anche se vecchio e brutto. Andrebbe invece convenientemente rammendato, come direbbe Renzo Piano, sottolineato e ricontestualizzato seguendo una logica a togliere che limita, contiene, restituisce gli immobili a nuove funzioni e significati.

Ci sarebbe molto da fare ovunque, se volessimo pensare la città insieme ai nostri bravi architetti.

 

Il secondo esempio. Ci muoviamo in città usando i mezzi introdotti dalla società industriale nel XIX secolo. Da allora la tecnologia ha cambiato il mondo e in generale lo ha fatto riducendo ogni manufatto, mettendo a portata di mano, spesso di dito, talvolta di voce, ciò che in passato era ingombrante e pesante.

Solo il volume dei mezzi di trasporto, pubblici e privati, lievita in continuazione. Se introducessimo due semplici concetti, le cose potrebbero cambiare in modo radicale.

 

Sarebbe sufficiente se, in alcuni tratti, il pavimento delle città si muovesse sotto i nostri piedi (i tapirulan che abitualmente usiamo negli aeroporti e nelle città disposte su due livelli) e se, negli altri spazi, utilizzassimo mezzi che non eccedano le misure del nostro corpo e che siano ritraibili e alloggiabili nelle nostre case dopo averli usati.

 

A chi chiedere, se non a ingegneri e architetti di progettare mezzi così concepiti per adattarli alle più diverse esigenze così da corrispondere ai bisogni di ogni individuo? Loro soltanto saprebbero renderli più comodi, rapidi e meno inquinanti dei mezzi attualmente in uso. Se pensiamo ai problemi posti dal Covid per quanto attiene i trasporti, dovremo ammettere che, per l’ennesima volta nella storia, i problemi dell’igiene e della salute pubblica nelle città potrebbero trovare negli architetti e negli urbanisti i migliori alleati dei medici.

 

Abbiamo idea di come cambierebbe l’immagine di città senza i mezzi di trasporto novecenteschi, di quanto spazio urbano potremmo liberare se gli architetti lavorassero su un mandato a togliere?

 

Chi progetterà quel che serve per salvare le nostre città, se uccideremo gli architetti nella culla?

C’è forse un Paese al mondo che, più del nostro, avrebbe interesse a riguadagnare le città nel loro antico splendore? Crediamo forse che  acquisirono questa fama attraverso i mezzi di trasporto e con le brutture novecentesche che ora cadono a pezzi?

 

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