Navigare la notte. Bodei e la civetta della filosofia

di Giusy Diquattro

Una sfumatura di rosso e vermiglio, poi i gialli e le ruggini, una folata di vento ed è già novembre. Tempo sospeso nei ricordi di chi è partito e forse ci aspetta dall’altra parte di un confine, tempo di attesa nell’innocenza e frenesia che porta dicembre. Mi siedo accanto alle date, ciascuna ha un nome e ogni nome uno sciame di anni, di strade e parole evaporate in una curva del cuore. Le sgrano come un rosario, una litania di assenze.

A passo lento ritorno a Pisa, agli anni dell’università. Rivedo la mia bici, vecchia quel tanto che basta per non farsela rubare, il portone di via Santa Maria; sento ancora le confidenze, le pause rotte da un’emozione che arriva improvvisa, la camomilla bollente delle tre di notte e l’umidità dei panni stesi sul pianerottolo di casa. Giro in via dei Mille, poi in via Pasquale Paoli. Sono arrivata: dipartimento di Filosofia, accanto a quello di Fisica. Le aule sono piccole, pensate per pochi studenti, tranne la prima sulla destra, ampia, a gradoni. Entro e ed è ancora lì il mio professore, tra quell’aula sempre stracolma e la sua stanza, l’ultima di un corridoio lunghissimo e con qualche insenatura, come a dire che chi studia non finirà mai di cercare. Si firmava in minuscolo, ‘remo bodei’, un’elegante eccentricità, come i suoi pensieri ironici e declinati in insoliti ossimori. Ascolto le lezioni sul bello e il sublime, mi perdo nelle tempeste di Turner e nelle nebbie di Friedrich; passa un anno e incontro Agostino. Sarà un incontro fatale, di quelli che segnano. Agostino letto da Bodei1 non è il santo, è l’uomo dalla volontà divisa, in guerra civile con le sue passioni e dissonanze; è il filosofo del quaerere, dell’indagare interrogante e mai sazio, degli abissi di tenebra e grazia, dei paradossi del tempo. Sceglievo i banchi della fila centrale, prendevo appunti, poi mi fermavo nei passaggi più intensi: «Ogni cosa ha un peso, un pondus, e tende al suo luogo naturale, secondo i principi della fisica antica. E se l’anima è di natura ignea, se è fuoco, essa va verso l’alto». E quel fuoco arrivava, lo sentivo scaldare e poi sollevarmi verso vasti orizzonti.

Credo che del filosofo africano apprezzasse le sue origini berbere, l’indomito carattere del purosangue. Il pensiero di Agostino giungeva dalla provincia romana della Numidia, l’odierna Algeria, da un Mediterraneo presto invaso dai Vandali, come del resto lo era stata la Sardegna di Bodei, sempre esposta a colonizzazioni e conquiste. Di Cagliari aveva conservato un accento inconfondibile e gentile, ricordava il volo dei fenicotteri sulle saline di Molentargius. Entrambi erano uomini di terre assolate, di golfi ai tramonti, di entroterra deserti, dove più forte è la luce più nera è la notte; amavano scrivere per antitesi, era un ragionare in chiaroscuro per far risaltare le forme e le loro metamorfosi.

Le lezioni erano sempre attraversate da qualcosa di vivo e spurio, le passioni umane impregnavano e modellavano anche i paesaggi rarefatti della metafisica; la filosofia non era mai qualcosa di estraneo alla vita. Parte della sua opera, già da alcuni titoli quali Geometria delle passioni, Lelogiche del delirio, ha cercato di dare pari dignità sia al pensiero fisico matematico di tipo cartesiano, che a quegli scarti della ragione che hanno logiche proprie, come le passioni, moti dell’animo non soltanto irrazionali, ma arene di conflitti insanabili, con cui è necessario imparare a convivere. Ragioni e passioni si escluderebbero a vicenda, avrebbero statuti opposti, eppure si cercano e si completano come l’emisfero destro e sinistro, sono legate dalla solidarietà antagonistica del ‘né con te, né senza di te’2. La sua riflessione si è configurata come un invito a superare la paura di contaminazione che un certo razionalismo freddo ha alimentato verso gli aspetti più vischiosi e oscuri della nostra natura, e ad addentrarsi con coraggio nelle zone borderline tra l’ordine e il disordine, ad ascoltare le voci che salgono dalle sabbie mobili del caos, della follia, dell’istinto, rimanendo con un piede ben saldo sulla terraferma.

Bodei era stato tra i fondatori del Festival Filosofia di Modena vent’anni fa. Aveva intuito la profonda esigenza di riconsegnare Socrate all’agorà, di far dialogare l’accademia con l’uomo comune, aveva riportato al centro le grandi domande, inaggirabili e ineludibili: la vita, la morte, la verità, la bellezza, la giustizia, l’amore. Poi il Festival Con-vivere di Carrara, alcune edizioni dedicate a itinerari geografici e geopolitici: il Mediterraneo e le primavere arabe, l’Africa, l’America Latina; un tentativo di restituire una lettura complessa sulla faticosa convivenza tra popoli e culture, sulle loro eloquenti diversità, per superare visioni immobili e binarie che dividono banalmente il mondo in ‘noi’ e ‘loro’. La filosofia diventa evento mondano, abbandona i quartieri trascendentali dell’iperuranio e incontra lo studente, il libero professionista, l’impiegato; srotola il suo filo di amarezza, quando si fa meditatio mortis, ci sorprende in un vicolo della mente, quando sa ferire nella meraviglia dell’universo. E noi lì, tra una conferenza e un concerto, camminiamo tra le strade e gli ingorghi delle nostre vite, come in un labirinto a seguire una traccia, una parola, un pensiero che possa schiarire un vetro opaco da cui non riusciamo a leggere il senso di una giornata o di una scelta.

Nella vita di uno studioso molto tempo è dedicato alla ricerca, a volte è una lettura vorace di testi, altre volte assaggi fugaci per rintracciare solo informazioni utili in qualche archivio, spesso un soffermarsi paziente su concetti, etimologie e scavo tra le righe. La ricerca anticipa un incontro, è un appuntamento sempre rimandato, si nutre di attesa, vede continuamente sfaldarsi la possibilità di conclusioni definitive.

Passavo alcune ore al Palazzo dell’Orologio, era un’ala della Biblioteca Normale, accessibile anche a noi della statale, collegata al Palazzo della Carovana da passaggi sotterranei, corridoi e scale. Il posto poteva ricordare vicende sinistre perché un’area del Palazzo comprendeva anche la Torre della Muda, dove si narra sia morto il Conte Ugolino con i suoi figli. Era rimasta la fame, di altro tipo, di un sapere irraggiungibile, sempre da navigare. In quelle stanze della Biblioteca andavo qualche volta a studiare, gli scaffali ospitavano il Fondo Momigliano, una delle tante collezioni private appartenute a personalità di rilievo nell’ambito umanistico e scientifico. C’erano libri di storia delle religioni, di cultura ebraica, molti avevano delle note a margine, delle dediche di amici, che rivelavano la peculiarità degli interessi e la rete di relazioni del proprietario. Erano momenti in cui non riuscivo a concludere gran che, quei testi mi distraevano e mi calamitavano, un po’ per i contenuti, più per quel che immaginavo dietro ringraziamenti, appunti e segni come scarabocchi. Forse un giorno anche i libri di Bodei finiranno in un’ala della Normale, sarà come ricostruire una mappa del suo pensiero, come ripercorrere un viaggio dalle pergamene di Alessandria e Atene, alle università tedesche, americane, europee. Perché una domanda me la sono sempre fatta: quanti libri aveva letto il mio professore? Nell’ascoltarlo si provava una certa vertigine, un caleidoscopio di rimandi dall’arte alla scienza, alla fisica, alla letteratura, alla musica.Chissà quali erano state le letture giovanili che lo avevano colpito e influenzato, quali avevano segnato uno spartiacque? L’ultimo libro3 è stato un ritorno alle origini, a Hegel, alla dialettica servo – padrone, alle logiche di dominio e sottomissione, al margine riservato alla libertà umana, alla dignità, alla democrazia, in uno scenario in cui le tecnologie diventano sempre più strumenti manipolativi da parte di poteri spesso invisibili. Tuttavia nessuna deriva pessimista verso un futuro alquanto incerto, ma la necessità di porre questioni che possano attrezzare in maniera costruttiva e critica una società che vede via via crescere la simbiosi tra uomo e Intelligenza Artificiale. Nonostante gli attacchi, anche istituzionali, che la filosofia ha subito in questi anni, la sua supposta inutilità che sempre le viene rinfacciata, essa invece rimane tra gli antidoti possibili contro le coscienze parzialmente sedate e inclini a una servitù volontaria,è la civetta che sa vedere lontano e guidarci in questa lunga notte.

Giusy Diquattro è nata a Ragusa. Laureata in Filosofia presso l’Università di Pisa con Remo Bodei sul concetto di Conversione in Agostino, nel 2000 vince una borsa di studio presso l’Università di Bucarest sul Diario della felicità di Nicolae Steinhardt, nel 2005 consegue il perfezionamento in Comunicazione e Mediazione Interculturale presso l’Università di Torino. Dal 2000 vive a Torino, dove insegna Lettere. È raccoglitrice di storie di migrazione per il Centro Interculturale, con cui ha pubblicato Victoryat the end in Il cibo in valigia (2015)e Nora Moskora in Andata e ritorno. Percorsi tra genitori e figli, ANANKE lab (2018). Alcune sue poesie sono state inserite nelle seguenti antologie: Enciclopedia di PoesiaItaliana, vol. 8/2017, Fondazione Mario Luzi Editore (2018); Prosa poesia per la pace, Africa Solidarietà Edizioni (2019); Poesie per Dio. Quasi una preghiera, Edizioni La Zisa (2019); Un paio di scarpette rosse, Kanaga Edizioni (2019), Canti per la pace, Africa Solidarietà Edizioni (2020).

1Cfr. R. Bodei, Ordo amoris. Conflitti terreni e felicità celeste, il Mulino, Bologna 1991, pag. 44.

2Cfr. R. Bodei, Geometria delle passioni. Paura, speranza, felicità: filosofia e uso politico, Feltrinelli, Milano 1991, pag. 11.

3R. Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, il Mulino, Bologna 2019.

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