Riflessioni di un redattore al domicilio coatto (seconda puntata)
di Francesco Gianola Bazzini
“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”;
con questa breve poesia Giuseppe Ungaretti descriveva la condizione esistenziale dei soldati impegnati sul fronte durante la prima guerra mondiale.
“Ognuno sta solo sul cuor della terra trafitto da un raggio di sole, ed è subito sera”;
il nobel Salvatore Quasimodo descrive in questi brevi versi la nostra solitudine ed il breve tratto di strada della nostra vita.
“Laudato sie, mi’Signore, per sora nostra morte corporale, da la quale nullu homo vivente po’ skappare: guai a quelli ke morranno ne le peccata mortali” ;
San Francesco d’Assisi ci mette di fronte all’ineluttabilità del fine vita.
“La morte di qualcuno è piuttosto simile ad una puntura, un richiamo che viene a mettere in guardia l’umanità contro le sue depravazioni e la sua decadenza, e a ricordarle che la vita su questa terra non è altro che una cosa effimera”;
Zaynab al Ghazali scrittrice egiziana, militante donna della fratellanza musulmana, mancata diversi anni fa, ci richiama alle nostre responsabilità, di cui dovremo rendere conto dopo il nostro breve cammino.
La morte è in questi momenti motivo di angoscia sia per chi va sia per chi resta; il rischio di non avere o di non poter dare conforto con una lacrima, un fiore, una lapide o con l’ombra di un cipresso ci rammenterebbe Ugo Foscolo. Due poeti, un santo e una militante politica, mettono al centro della loro riflessione la morte. Scritti in momenti, in situazioni e con una visione del mondo e dell’altro mondo molto diversi, ci portano a riflettere (e il tempo per riflettere non manca in questi frangenti) su come la vita trascorra velocemente verso un traguardo che ciascuno di noi dovrà oltrepassare. In particolare Ungaretti sottolinea il fatto che dove si trovi questo traguardo non ci è dato sapere. Soldati la sua poesia, ma oggi chi non si può considerare tale, il fronte è mobile e il nemico dispone di mezzi, tempi e strategie indecifrabili. Quasimodo sottolinea la solitudine; è vero in questa tragedia abbiamo riscoperto gli affetti più intimi, forzatamente forse, ma li abbiamo riscoperti o per la convivenza o per il comunicarsi in modo freddo e virtuale con amici e parenti. Non è di tutti però e per tanti questa solitudine è a trecentosessanta gradi, senza affetti, parenti o amici. Ma in realtà tutti siamo soli nelle nostre paure, nell’immaginare il nostro futuro e quello della nostra civiltà. San Francesco e la al Ghazali si e ci interrogano, con uno spirito religioso, sulle nostre azioni ed omissioni, sui nostri egoismi in una parola sui nostri peccati.
E collegandomi al concetto di peccato una considerazione sui ministri di fede, su coloro che le rappresentano. Papa Francesco, in un clima surreale, oserei dire quasi medievale prima con quel bacio al crocifisso e poi durante le funzioni pasquali, ha invocato la pietà dell’Altissimo per un suo intervento salvifico per tutti noi. Quello che mi colpisce e mi commuove nel comportamento e nelle parole dei Religiosi, di tutte le fedi, è il senso di impotenza, quasi un senso di colpa da parte di chi rappresenta Colui che a torto o a ragione, a seconda dei punti di vista, si invoca affinchè ci tolga da questo guaio. Li apprezzo perché hanno la forza di portare avanti il loro ministero in un contesto così drammatico ed inspiegabile. Le belle parole che ci trasmettono rendono onore alla loro Missione e a loro modo li considero eroi. Non salvano il nostro fragile corpo, ma portano conforto e sollievo alla nostra anima. Perché è inutile negarlo, in questa come in altre circostanze, sia in chi crede che in chi non crede il dubbio e la speranza si fanno più concreti: “Spes ultima dea”.
Ma nel concreto come viviamo questa commedia dell’assurdo nella vita di tutti i giorni e nel nostro intimo?
All’inizio è parsa un’avventura, in cui ci si trova catapultati all’improvviso. Ma come dove ci troviamo, la nostra città sembra così diversa che fatichiamo a riconoscerla. Ma sarà poi vero o sono le solite esagerazioni dei media? Va bene adattiamoci in fondo è come un grande gioco collettivo, tutti a casa, tutti mascherati in una sorta di carnevale, trascorso per la verità, quello canonico, nell’indifferenza totale. Sarà del resto per poco tempo, un po’ come una lieve scossa di terremoto: tutti in strada e poi di nuovo nelle nostre case e domani chi se lo ricorda più. Ma figuriamoci se deve toccare proprio a noi, non ci è mai crollato il tetto sulla testa. L’alluvione, ma scherziamo il nostro torrente quasi sempre in secca, no però qualche anno fa esondando ha allagato mezza città. Lo tsunami? Mica siamo al mare, e poi è roba da paesi esotici, poveretti loro ci sono abituati, guerre, miseria, carestie e epidemie. Ma il tempo lentamente trascorre e quell’ultimo concetto epidemia comincia ad entrare nel quotidiano vocabolario di tutti, ma non come discorso da strada o da bar ma negli appelli e nelle dichiarazioni di autorità e studiosi. E poi e poi il suono delle ambulanze come non si era mai sentito, le immagini di ospedali al collasso e di pazienti intubati in terapia intensiva, e chi l’ha provata sa che non è uno scherzo. Ma soprattutto la notizia di conoscenti e amici o addirittura di parenti della cui scomparsa per questo terribile contagio siamo venuti a conoscenza. Si contagio, peste rendono meglio l’idea, sono termini antichi medievali più di Covid 19 che sembra il codice di un nuovo prodotto di telefonia mobile, con questo vizio che abbiamo di edulcorare termini su malattie e disgrazie per farli apparire lontani quando invece sono terribilmente reali e vicini.
No, non è un sogno, né un’avventura e nemmeno un’esagerazione, è una terribile pestilenza che si è diffusa a macchia d’olio come la peste del 1630, così ben narrata da Alessandro Manzoni. Stesse dinamiche, stessa superficialità nel comprenderne la portata con dibattiti e dissertazioni tra “dotti medici e sapienti”ci direbbe Edoardo Bennato; stessa disinvoltura e a volte fastidio da parte della popolazione o almeno di buona parte. Ma come devo rinunciare alla mia corsetta al parco o all’apericena con gli amici? Neanche uno spritz mi è concesso? Subentra allora la rabbia e la frustrazione. E poi perché una diffusione così veloce e a trecentosessanta gradi? Ci domandiamo per colpa di chi o di che cosa sta accadendo tutto ciò? Non volendo pensare a untori o malefìci, ci viene da pensare alle guerre batteriologiche (come sei attuale Manzoni ci tocca di ripetere, con i tuoi Promessi Sposi o con la tua Storia della Colonna Infame: untori, streghe, Satana in persona e perché no il Re di Francia). Ora non volendoci perdere nella diatriba se sia colpa di Trump o di Xi Jinping, che peraltro si sarebbero rivelati assai maldestri visti i morti e i danni economici arrecati anche ai propri paesi, ci sembra però opportuno riflettere a tempo debito su sperimentazioni chimiche o biologiche che a volte ci richiamano ai tempi bui di un passato non troppo remoto. E allora non ci rimane che riflettere su altre possibili cause: la Terra si è stufata di noi, l’Altissimo deluso dalla nostra superficialità e dal nostro egoismo ha scatenato un Nuovo Diluvio Universale o è semplicemente il destino cinico e baro, come ebbe a sostenere un folle che intrapresa una folle guerra causò lutti e devastazioni e una umiliante sconfitta al suo popolo.
Continuiamo ad interrogarci e intanto i pensieri si fanno più cupi e la carestia, la solitudine e la morte diventano improvvisamente opzioni possibili. Il morale crolla e il futuro, se ci salveremo, appare sempre più a tinte fosche.
Ma come la vita ci ha insegnato quando si tocca il fondo, non si può che risalire. E allora passati l’incredulità iniziale, la rabbia e lo sconforto, la paura il dolore per chi ci ha lasciato buttiamo lo “sguardo oltre la siepe sperando di non naufragare in questo mare” (licenza leopardiana). E cerchiamo di pensare anche in positivo secondo il concetto che nessun male viene solo per nuocere. Guardando dalla finestra vediamo bambini che giocano nel cortile desiderosi di aria e libertà , magari ci piace pensare in attesa di una merenda a pane e marmellata o più semplicemente a pane burro e zucchero. Immagini perdute che solo a chi ha qualche anno tornano alla mente, magari attraverso il racconto dei nostri vecchi. Strade poco trafficate e meno pericolose. Lunghe e disciplinate code ai negozi e alle farmacie senza atteggiamenti di furbizia e di fastidio. Raccoglimento in famiglia, senza quella fretta fastidiosa che ci portava a discutere per orari non rispettati o ineludibili impegni. Ma soprattutto senso della condivisione per un’apocalisse che volendoci distruggere forse ci ha uniti un po’ di più. Lunghe telefonate o messaggi con amici e parenti, anche con chi non eravamo più avvezzi ad ascoltare, sempre travolti dalla fretta e dal nervoso. Forse qualcosa di positivo troveremo allora in mezzo a tante macerie?
Per concludere qualche riflessione viene spontanea in questo periodo di “torbidi”. Partecipazione, condivisione, impegno sociale e culturale sono e saranno sempre di più una medicina indispensabile. Il rischio vero di questa pandemia o contagio o pestilenza che dir si voglia è lo sfaldamento del tessuto sociale, il rinchiudersi in se stessi e la diffidenza verso gli altri. Purtroppo qualche segnale in questo senso si avverte. Credere in se stessi e nei propri valori infine e non delegare sempre agli altri; anche il fare politica nel senso nobile del termine, non è solo un diritto ma anche un dovere, ma questa è un’altra storia…… . Ma in particolare occorre guardare dentro noi stessi, trovare nel profondo quella forza che è in ciascuno di noi rendendola un patrimonio comune. E nella solitudine e nella prigionia che stiamo vivendo che dobbiamo sforzarci di tirarla fuori. Mi vengono allora alla mente i versi di una poesia di William Ernest Henley (1849 – 1903) fatta propria da Nelson Mandela durante la sua incomprensibile prigionia.
Invictus
Dal profondo della notte che mi avvolge,
Buia come un abisso che va da un polo all’altro,
Ringrazio qualsiasi dio esista
Per la mia indomabile anima.Nella feroce morsa delle circostanze
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d’ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.Oltre questo luogo di collera e di lacrime
Incombe solo l’Orrore delle ombre,
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita,
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.
William Ernest Henley
Francesco Gianola Bazzini 13 aprile 2020
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