Canonizzazione letteraria e ricorsività storica: problemi sul presente

Di Federico Dazzi

I rimpianti nostalgici hanno sempre poco senso. Il mantra del “non si pubblicano più i libri di una volta” non riesce mai a nascondere totalmente l’errore di chi è in preda a questi astratti furori. Se si volge l’occhio al dibattito generale sullo stato del libro e della letteratura in Italia si ha la percezione che non sappiamo più scrivere, che l’editoria pubblica troppi libri e che la critica letteraria è morta. Ciò in buona parte è vero: la critica spesso è puro vassallaggio e molte case editrici pubblicano chiunque, con il presentarsi del fenomeno dell’autopubblicazione che nasconde parecchie insidie. Tutti problemi, d’accordo, ma c’è una criticità strutturale: che lamentarsi della contemporaneità è diventata una prassi esente da qualsiasi istanza critica, con il risultato di ridurre il discorso a problematiche manichee ed emarginando sempre più la complessità. È bene perciò tentare di individuare quali problematiche del sistema editoriale e letterario siano dovute effettivamente a contingenze esclusive dell’attualità e quali invece siano solamente frutti ricorsivi del tempo. In altre parole, ci sono problemi che non sono problemi in virtù della loro ricorsività storica: essi esistono più come abitudini umane che come errori in quanto tali.

Riprendiamo le fila: non è vero che oggi la letteratura sia scadente e che non si pubblicano più i bei libri di una volta. Questo per due motivi: il primo è che di letteratura scadente se ne è sempre prodotta, dall’alba dei tempi. In questo caso il problema sta altrove, ovvero nel fatto che pubblicando molto di più la probabilità di incappare in cattiva letteratura è molto più alta che nel passato. Ciò che oggi si sta sgretolando sempre più, se vogliamo, è la funzione di filtro che esercitavano le case editrici, spesso sorrette anche su ragioni culturali oltre che finanziarie. Il secondo motivo è dato dal nostro modo di essere al mondo: così invischiati nel presente, non ci rendiamo conto che spesso è il passato a ripetersi. Il sistema editoriale odierno (che, ricordo sempre, è uno specchio delle trasformazioni sociali in atto) ci ha abituato ad un’ipertrofia di titoli e di pubblicazioni, e in qualche modo ci ha disabituato al ritmo dell’editoria di stampo tradizionale[1]. Su un ritmo di circa 250 libri pubblicati al giorno in Italia, che senso ha stare a vaticinare su quale sarà il prossimo classico del XXI secolo? Nessuno, considerando che già riuscire ad elencarne qualcuno per il Novecento non sarebbe poi così inutile, soprattutto in ambito scolastico. Lo studio della letteratura del ‘900 a scuola è infatti ancora molto caotico, e le direttive normative su quali autori approfondire non vanno oltre (se va bene) a Pirandello e qualche briciola del primo Montale. È infatti vero che il Novecento entra a scuola soprattutto a seconda della brillantezza del professore di turno e anche grazie a determinate collaborazioni di case editrici con le singole scuole (a Parma la Einaudi è a quanto mi risulta la più attiva). Insomma, il Novecento a scuola non passa per il Ministero.

Scordiamo poi un punto fondamentale per quanto riguarda la comprensione del processo di canonizzazione letteraria: e cioè che i classici, al di là di molti atteggiamenti estremisti di oggi, sono storicamente determinati, e i processi di revisione storica sono sempre avvenuti. Osserviamo questi dati:

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Rilevazione tramite l’OPAC-SBN delle edizioni di testi a stampa nei vari secoli. I dati sono relativi nello specifico alle unità bibliografiche possedute dalle biblioteche italiane, selezionate sulla base della sola intestazione d’autore e rilevate in gennaio 2012 da Amedeo Quondam. (A. Quondam, Il canone dei classici italiani, in Dal Parnaso italiano agli scrittori d’Italia, a cura di P. Bartesaghi e G. Frasso, Bulzoni, 2012, p. 17)

C’è un fatto molto interessante: fino all’Ottocento gli scrittori considerati “classici” erano i contemporanei. Oggi, invece, quando parliamo di classici viene spontaneo guardarsi indietro. Questo cosa significa? Per prima cosa, significa che il processo di canonizzazione ha sempre assunto una natura dinamica, mai sedentaria: metterlo in discussione non è quindi cosa nuova. Si sbaglia a farlo solamente quando esistono ragioni ideologiche e politiche miranti a determinarne una visione strumentale. Se un classico è spacciato come accomodante o in linea con i tempi, il più delle volte non è un classico, ma una distorsione strumentale di un libro: nient’altro. Le ragioni possono anche essere prettamente economiche, come quando le case editrici appongono l’etichetta di “classico” ad un’infinità di titoli in maniera del tutto arbitraria: tanto è vero che spesso sembra che solamente l’editoria sappia con precisione che cosa sia in realtà il classico.

In secondo luogo i dati ci ricordano appunto che nella contemporaneità facciamo fatica a canonizzare gli autori contemporanei: ciò è vero dal momento che in questi due ultimi secoli gli attori adibiti alla canonizzazione sono totalmente mutati. Siamo prima di tutto passati da un paradigma assiologico verticale ad uno orizzontale col Romanticismo prima e con la borghesia poi; abbiamo visto decrescere il potere legislativo di certa critica letteraria in favore di una frammentazione dell’autorità che presenta parecchi problemi; abbiamo visto di contro crescere il potere canonizzante dell’editoria (e qui gli studi sono in buona parte ancora in fieri). Di fronte ad un evidente conflitto perpetuo di autorità, tra l’altro rilevabile oggi in qualsiasi ambito (soprattutto negli ultimi anni), tentare di indovinare quale autore contemporaneo sia un classico o meno è diventato un gioco. E siamo talmente immersi nella cultura contemporanea che abbiamo dimenticato che il processo di canonizzazione richiede tempo e non è mai del tutto stabile: che senso ha quindi accumulare nomi e sentenze su chi sia più classico di altri? Arriveremo a un FantaClassico come per il calcio e il Festival di Sanremo? Temo che ci sia una ragione profonda, ed è quella smania irrefrenabile e terribile di oggi a colmare i vuoti. La contemplazione, la riflessione e la complessità, si sa, sono passate di moda perché esigono lentezza, rallentamento, discussione, paradossi. Sono nati quindi i palinsesti eterni, la pervasività social e il feticismo voyeuristico stile Grande Fratello dell’osservazione h-24. D’altronde secondo varie stime controlliamo il telefono decine e decine volte al giorno e passiamo parecchie ore a navigare per puro intrattenimento “scacciapensieri”. Si tenta di sconfiggere in ogni modo la noia, dimenticandosi che essa ha in realtà, se non sfocia in lassismo, anche grandi benefici. Ci è presa quindi una smania di riempire i vuoti del canone letterario, quando in realtà i processi della canonizzazione sono complessi e richiedono tempo: cose che non ci possiamo permettere. Siamo convinti che ci debba essere un classico ogni giorno, ed è una caccia continua per stanarli. Il problema è nostro, troppo invischiati nelle logiche contemporanee per poter analizzare seriamente il problema.

Per questo si sente dire che “non si pubblicano più i libri di una volta”: siamo così ingenui (o complici?) da dare per scontato che di bei libri se ne scrivessero parecchi, una volta. Oggi ogni prodotto ci viene presentato come la scoperta del secolo, ogni libro che “funziona” è un classico, dobbiamo insomma percepire l’opulenza. Nulla è più rivelatore di una crisi come l’ostentazione: e infatti la grande mole di libri scadenti pubblicati oggi non è altro che l’ennesimo tentativo di compensare il vuoto. Di libri buoni ne escono, e nella stessa maniera di prima. C’è solo parecchio rumore di fondo, che si può facilmente evitare se si è abbastanza svegli. I buoni libri continuano ad essere pubblicati, ma sono figli del tempo, della riflessione e della complessità, e spesso sono scomodi: tutte cose a cui non siamo più abituati. Per questo dire che “non si pubblicano più i libri di una volta” sarebbe da evitare: per il fatto che ci rivela nella nostra nudità, nel nostro errore di non capire di far parte di un sistema di pensiero altamente euristico e superficiale, totalmente estraneo ormai alla natura di processi retti dalla lentezza e dalla complessità. Lamentiamo la scarsità di “classici contemporanei”, ma ignoriamo completamente i processi che ne determinano lo sviluppo. Da una parte cerchiamo sempre il bello dietro l’angolo non capendo che il mondo è rotondo, dall’altra ci lamentiamo di non trovare nulla. Per capire certe cose, bisogna essere inattuali.

  1. Quella almeno fino agli anni Ottanta del Novecento.

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