Un ponte per dormire

di Andrea Galletti

Com’è possibile negare a una persona la capacità di spostarsi, di muoversi secondo il proprio arbitrio e secondo i propri desideri? Non è possibile o almeno non dovrebbe. L’articolo 13 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite dichiara: comma 1 «Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato». Comma 2 «Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e di ritornare nel proprio paese» (Dichiarazione universale dei diritti umani, OHCHR). La triste verità è che invece sempre più spesso si decide, perché all’interno dei processi decisionali o per semplice e passiva accettazione dei fatti, di negare a molte persone la facoltà di potersi muovere in libertà. Di solito ciò avviene per una combinazione di paura e ignoranza, che scattano quando si tratta di difendere ciò che è nostro o ciò che crediamo ci appartenga. L’Italia e l’Europa hanno costruito un sistema di esclusione del diverso, che anziché agevolare l’inserimento nella nostra società emargina e discrimina. La cosa che fa riflettere è che questo processo avviene a tutti i livelli, da quello europeo a quello del singolo cittadino, che ha assorbito decenni di propaganda contraria all’immigrazione.

Anche nelle singole città, Parma compresa, il Leitmotiv dominante è costituito non tanto dalla volontà di intercettare il disagio per risolvere la questione, ma dal limitarsi a monitorare una serie di situazioni difficili, intervenendo solo quando diventano drammatiche o quando l’opinione pubblica alza la voce. Monitorare. Verbo chiave che fa il paio con un suo non troppo lontano cugino di cui costituisce il preambolo, riqualificare, espressione di una anti-società che anziché conoscere e abbracciare preferisce chiudere gli occhi e allontanare a priori. L’accoppiata dei verbi sopracitati diventa una presenza ingombrante quando leggiamo nella cronaca cittadina dei diversi interventi volti a sgomberare zone o abitati occupati da senzatetto e/o da abusivi che, ci piaccia o no, vivono tra noi.

Tutti gli esseri umani dovrebbero aver diritto, oltre alla mobilità, anche ad avere un tetto sopra la testa, suo necessario e fisiologico contraltare. Si tratta anche di una condizione imprescindibile e propedeutica all’inserimento nella comunità cittadina. Purtroppo il sistema, a Parma come a livello nazionale, non favorisce la ricerca di un’abitazione per chi è in difficoltà, mentre la cattiveria e l’ignoranza dei nostri concittadini fanno il resto. La discriminazione su base etnica per quanto riguarda gli affitti privati è un fenomeno ormai consolidato, che va ad influire in maniera negativa sulle energie di chi ha bisogno di una casa, lasciandogli meno tempo per cercare un impiego, per cercare di costruirsi una vita. Una sola notte all’addiaccio, specie se di inverno, limita notevolmente le risorse fisiche e mentali di un essere umano, che nel periodo di veglia si trova molto più in difficoltà rispetto a chi dorme in un appartamento e in un letto comodo. Il problema è acuito anche dal fatto che circa il 10% degli appartamenti del Comune resta sfitto e dalle lungaggini burocratiche che rendono complicato assegnare in tempi rapidi gli alloggi popolari.

Nonostante le logiche del mercato e quelle dell’esclusione bene o male bisogna dormire, il corpo non accetta più di un certo numero di ore di veglia senza riposo, costringendo chi non ha un tetto ad arrangiarsi come può. Ma dove mettere gli indesiderati, cosa farne? Fino ad ora, la nostra società e la nostra città non hanno saputo offrire soluzioni definitive ad un problema annoso come questo e si può affermare che non si siano nemmeno impegnate in tal senso. I senza fissa dimora sono un investimento che non conviene a nessuno, bisogna avviare progetti dedicati, investire in risorse, competenze e strutture adeguate senza neanche avere la certezza che sia possibile recuperare e reintegrare i soggetti in difficoltà. Si tratta di un’affermazione frequente tipica di un qualsiasi politico o funzionario quando si solleva questione. Risposte preconfezionate di questo tipo sono comode, ma non costituiscono un buon motivo per non impiegare risorse e tempo per venire incontro a difficoltà di tale genere. Servono solo a ribadire il fatto che alla vita umana viene attribuito un valore quando si è in grado di lavorare e interagire con un sistema che non ha a cuore la salute e la felicità dell’individuo, ma che lo sfrutta per continuare ad esistere. La risposta del politico medio è sbagliata anche in un altro senso, dato che a fianco di molti soggetti con evidenti fragilità derivate da dipendenze di vario genere o altri problemi, c’è tutto un universo di persone che lavorano, spesso in condizioni non felici e per una paga misera, resa ancora più scarna dalla necessità di inviare denaro alle famiglie che non sono in Italia. Gli invisibili sono costretti a dormire in condizioni precarie, occupando di conseguenza gli spazi pubblici della nostra ‘piccola Parigi’. Sicuramente chi ha coniato l’altisonante e alquanto sciocca definizione non aveva pensato di includere nella grandeur cittadina anche qualche vagabondo (o clochard?). Non aveva neanche considerato di realizzare una struttura ambiziosa come il ponte Europa, chiamato spesso ‘ponte nord’ dai parmigiani, e di lasciarla completamente vuota.

Uno degli esempi del fallimento della politica di rinnovamento della città, il ponte continua ‒ tranne qualche sporadico evento ‒ a rimanere una cattedrale nel deserto. Peccato che il deserto non sia tale, anzi. Negli anni la struttura è diventata rifugio per molte di quelle persone, talvolta con un impiego ma extracomunitarie, che non hanno i mezzi e le risorse per trovare un’abitazione. Come detto la legislazione non incoraggia chi vorrebbe regolarizzare e aiutare queste persone, ma al contempo in sede locale viene utilizzata come comodo paravento per incentivare le politiche di esclusione che a conti fatti sono le più rapide da impiegare in casi simili. Monitorare, riqualificare. Nel mezzo si aggiunge un altro verbo imprescindibile per capire certe dinamiche: sgomberare. Invece di risolvere alla radice il problema, si sceglie infatti di rimuoverlo con un’azione congiunta delle forze dell’ordine e dei servizi di pulizia cittadini. D’altronde alla spazzatura ci pensa il netturbino.

Tuttavia l’operazione di rimozione non è mai destinata ad avere un esito definitivo, perché di fatto costituisce un intervento superficiale che sposta la criticità, senza risolverla e anzi acuendo la diffidenza dei malcapitati nei confronti delle forze dell’ordine e della società che rappresentano. Inoltre agendo in questo modo si va a inficiare il livello di sicurezza percepita ‒ ben diverso da quella reale ‒ che da tempo è l’unica preoccupazione delle amministrazioni di tutto il Paese quando si affrontano certi temi, sempre pericolosi perché se mal interpretati fanno perdere voti e consenso. Se proprio non si desidera aiutare chi è costretto a vivere in strada, si faccia almeno finta di non vedere, potrebbe essere l’unica occasione in cui trattare dei nostri simili come ‘invisibili’ sia meno dannoso rispetto a considerarli come persone.

Sitografia

United Nations Human Rights Office of the High Commissioner, Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, https://www.ohchr.org/en/udhr/pages/Language.aspx?LangID=itn

Il presente articolo contiene una riflessione, maturata dopo l’ennesimo sgombero operato dalle forze dell’ordine locali, relativa all’occupazione di un simbolo dello sperpero di denaro pubblico da parte di chi non ha le risorse necessarie per procurarsi un alloggio ed è vittima di politiche nazionali e locali profondamente discriminatorie.

Gli interventi delle forze dell’ordine per eliminare l’occupazione abusiva del ponte Europa suscitano domande scomode sulle politiche abitative a livello nazionale e locale.

Senza fissa dimora, ponte Europa, sgombero, diritti umani.

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