[Pillole di Civiltà] – Abitare la città

di Roberto S. Tanzi

Premessa: il paradosso degli spazi perduti

 

Le città, destinate a diventare infinitamente grandi, vivono l’aporia della perdita dei piccoli spazi, degli spazi chiusi. Caffè, bar, circoli ricreativi, quelli che, nelle città industriali, erano i contenitori che ospitavano l’incontro, il confronto, la socializzazione, ciò che avrebbe inciso sulla vita e sulle scelte comuni. Quasi ovunque, nelle piccole e grandi città, sono scomparsi i luoghi del ritrovarsi nei quali, per scelta o per inerzia, ci si recava nella consapevolezza che avremmo trovato qualcuno con cui parlare, dialogare, un’interazione che ci avrebbe, in un modo o nell’altro, arricchito. Contenitori che sono scomparsi o hanno mutato la loro funzione abdicando a quella dell’incontro, a favore di attività dalla dimensione più modesta cui spesso s’affianca l’esercizio del commercio eno-gastronomico, dove non è quasi più possibile stazionare e dove la “consumazione” è veloce e funzionale a un momentaneo ristoro più che a un’utile conversazione. Altri che apriranno faticheranno, nella migliore delle ipotesi, a ritrovare le primitive caratteristiche perché mirati a un pubblico diverso, giovane, impedendo di fatto l’accesso a persone di età maggiore e quindi lo scambio e/o la conoscenza, pur superficiale ch’essa sia.

Esistono luoghi dove ancora si possono trovare queste vecchie dinamiche?

Nei paesi della Bassa, a Zibello ad esempio, esperienza personale dice sia ancora possibile sedersi a tavola con uno sconosciuto, iniziare a parlare e in una manciata di minuti passare dal “lei” al “tu” e discorrere amichevolmente come se ci si conoscesse da sempre.

Ma sono testimonianze, pur preziose, destinate a scomparire in un battito di ciglia: basta che i loro portatori cedano allo scorrere degli anni e svaniranno, come la tradizione dei falò di carnevale. Il rischio di scivolare nel folklore è reale, ma quale sarà il folklore che fra non molto verrà celebrato? Quali tradizioni si innesteranno su queste e le ibrideranno, nell’adempienza della circolarità del tempo?

La destrutturazione del sistema di valori umani, sociali e istituzionali che guidava le città fino alla loro persistente evanescenza, comporta echi lyotardiani che colgono la perdita di credibilità degli intellettuali, della scuola e dell’università come generatori di punti di riferimento precisi cui attenersi. A ciò si aggiungono le considerazioni di Baudrillard su una spettacolizzata rappresentazione del mondo e dei suoi pseudo eventi da parte di media divenuti modello di riferimento che negano la circolarità del tempo e i meccanismi di identificazione dei vecchi sistemi valoriali, rendendo difficoltoso il nostro lavoro e la sua penetrazione nel mondo delle idee.

E così che la città appare, un involucro, una forma vuota, in particolare per le giovani generazioni.

 

Educazione Arte Spiritualità

Sono i paradigmi ai quali dobbiamo attenerci in questa serata e ai quali dobbiamo attingere.

Il primo, l’Educazione, è sicuramente la strada maestra per ricomporre il mosaico spezzato. Ma manca il tassello centrale, quello che, come in un puzzle, tiene tutto insieme, mette tutti d’accordo, dà senso compito e intellegibile identificazione collettiva al disegno che rappresenta. Abbiamo tutto: i pezzi, cioè gli strumenti; l’immagine, che sulla scatola del puzzle guida la nostra mano; la cornice, che dà valore e solidità all’azione quando sarà terminata. Manca il tassello centrale: gli educatori, coloro che dovranno indicare la strada maestra per portare a compimento un’idea e un progetto di Comunità e quindi di Città, diverso dalla fisionomia politica e sociale che entrambe hanno assunto nella deriva del secolo scorso iniziata in quelli precedenti.

Chi potranno essere gli educatori?

Gli attuali sistemi pedagogici hanno perduto autorità e autorevolezza. Non per colpa della loro organizzazione né di chi è chiamato ad attuarla.

Alla classe docente non è più riconosciuta, come ad altre, un sistema valoriale tale da metterla in grado di svolgere il proprio compito – lasciando alle spalle toni paternalistici ed esclusivi – nella condivisa e convinta condizione – a mano a mano indirizzata e aggiornata – che ciò che viene trasmesso sia fondativo e adeguato evitando che chiunque, in qualsiasi momento, possa metterne rudemente in discussione i metodi o bloccarne l’operato.

Occorre, allora, identificare i “maestri”, coloro che, senza dare il peso che il comune immaginario attribuisce a questo aggettivo, possano catalizzare l’attenzione dei giovani destinatari di un progetto educativo in grado di coinvolgerli. Non possono, purtroppo, più farlo efficacemente gli insegnanti, né altri attori, come clero e notabili, che erano il fulcro della società, la punta d’emersione d’un iceberg cui fare riferimento.

Oggi chi sono i “maestri” ai quali i ragazzi guardano con ammirazione o con rispetto?

È dal mondo dello sport che può venire una risposta: gli allenatori, i “coach”, i “mister”, sono forse ancora coloro in grado di polarizzare e indirizzare l’interesse dei giovani.

Il mondo dello sport plasma ancora dei miti, dei personaggi in grado di lanciare messaggi che possono essere ascoltati, percepiti.

Sorvolo sul mondo della televisione e del cinema, quantunque quest’ultimo possa essere tenuto in considerazione.

Sono queste le persone che oggi possono avere il carisma necessario a interfacciarsi con i giovani ed essere ascoltati. Il problema è fornir loro “qualcosa” da comunicare.

È questa una possibile risposta al dilemma di “Abitare la Città e di “Pensare la Città.

 

Il secondo paradigma è quello dell’Arte, ed è indissolubile per definizione dal concetto di città ch’è, storicamente e di per sé stessa, generatrice d’arte.

Le città, quelle più antiche, sono città d’arte, perché tutte ne racchiudono, in misura maggiore o minore, testimonianze. Quelle più recenti si avviano esse stesse a divenire, in un prossimo futuro, città d’arte, quando la patina del tempo gliene avrà riconosciuto lo status facendole uscire dallo stupore della meraviglia che suscitano le ardite creazione e le provocazioni di architetti e artisti. Fare l’esempio di Dubai, sorta dalla sabbia e dal mare come una divinità, è banale e altre realtà possono vantare suggestioni più circoscritte ma ugualmente interessanti.

Il problema quindi non è l’arte ma l’utilizzo che se ne fa. Nelle città antiche l’arte è racchiusa nei centri storici e sporadicamente riappare in perimetri che tendono sempre più ad allargarsi perdendo contatto con il centro e divenendo qualcosa di diverso dalla città che conosciamo e dell’idea della quale tentiamo di occuparci. Esiste poi un’arte più spicciola che contiene tutte le manifestazioni creative dell’intelletto, cui viene dato spazio in eventi, mostre, manifestazioni, incontri. È un’arte estemporanea, evanescente e immateriale, a beneficio non si sa bene di chi. È fruita da comunità disgregate e targhettizzate che ne disperdono il valore e il messaggio simbolico.

Eppure un tempo l’arte, qualunque essa fosse, conteneva messaggi e simboli i quali, anche se non conosciuti nella loro complessità, venivano percepiti come tali ed erano in grado di lasciare segni profondi nei comportamenti, nelle aspettative, nelle aspirazioni. Assumevano il ruolo di guida delle comunità e le arricchivano.

Oggi l’arte ha perso questo valore fondativo ed è divenuta, quella figurativa, da oltre un secolo appannaggio di galleristi e mercanti che ne sono i committenti, perdendo i tradizionali spazi espositivi allegorici come i luoghi di culto e le facciate dei palazzi che ne comunicavano apertamente i messaggi. L’arte della parola e della scrittura, complice il web, si è talmente parcellizzata da perdere influenza e prestigio se non quello di un’erudizione sommaria e presto dimenticata, altrimenti imprecisa o fuorviante.

Ancora mancano i luoghi dell’Arte, dove si possa manifestare il suo pensiero e il suo senso, cosa che non può avvenire se non attraverso una diversa consapevolezza e cognizione degli obiettivi da raggiungere da parte di coloro che sono chiamati a governare le città e non solo ad amministrarle.

 

Il terzo paradigma, la Spiritualità, ci spinge a mutuare un pensiero di Marc Augé, l’etnoanalisi, e applicarlo alla città notando l’assenza, oggi, di figure centrali nella tenuta e nell’interpretazione dei suoi riti quotidiani e nelle sue celebrazioni pubbliche: i “profeti”, che in tempi non lontanissimi erano i testimoni e gli intermediari della loro epoca, in grado di dare indicazioni sul rapporto con sé stessi e la relazione con gli altri, annunciare i cambiamenti e indicare nelle vecchie pratiche il freno al mutamento. Erano quindi in grado di aiutare sia “le vittime della vita tradizionale, sia quelle della vita moderna” contadini e cittadini storpiati da cambiamenti che faticavano a metabolizzare. Figure di “transizione” che traghettavano verso una comprensione più obiettiva dei malesseri e dei mali. In epoca moderna queste figure sono state vicariate dalle discipline di psicologia e psicanalisi, che hanno indagato nelle profondità dell’uomo l’origine dei disagi e cercato di dare risposte ai problemi appoggiandosi alla chimica dei farmaci.

Per tornare alla spiritualità, è storia che l’uso sciamanico della chimica sia antico forse quanto l’uomo. Era nelle proprietà allucinogene o di distacco dal presente di erbe e radici che si trovavano le risposte per le persone. Un utilizzo più scientifico è stato tentato in anni recenti anche da ricercatori “di confine”, senza però riuscire ad attribuire alla sostanza l’antica valenza spirituale di guida, indicando solo una scorciatoia verso non la soluzione ma un temporaneo miglioramento psico-fisico. Un utilizzo divenuto sempre più indiscriminato che soffoca e sopprime il lato spirituale delle persone.

Steven Soderbergh in “Effetti collaterali”, illustra molto bene il proliferare dell’utilizzo di farmaci psicotropi per preparare le persone ad affrontare i problemi quotidiani: in una scena un medico psichiatra dà una pillola alla moglie che deve sostenere un colloquio di lavoro: “è giusto che la prenda?” si chiede lei “sono betabloccanti” risponde lui “li prendono tutti, avvocati, musicisti, persone che vanno a fare colloqui importanti. Non ti fa diventare quello che non sei, rende solo più facile essere quello che sei”. La vita intesa come un continuo presente.

Il percorso intrapreso dell’“Abitare la città” ci pone di fronte anche all’assenza della spiritualità nei gesti e nelle cose del vivere comune. Beninteso non si tratta di trasformare le persone in asceti, la spiritualità di cui vogliamo parlare è qualcosa di più sottile, di percepito più che sentito, come un segnale radio appena captato di cui non è necessario comprendere a fondo il significato, ma se ne avverte la forza. Un segnale la cui frequenza si è persa nell’affollamento dell’etere.

Si può far risalire a qualcuno o a qualcosa questa perdita? Un pazzo, una manciata di lustri fa lo ha identificato con l’avvento della rivoluzione industriale che con le sue conseguenze sarebbe stata un “disastro per la razza umana. La tecnologia avrebbe dovuto liberarci” diceva “ma non è stato così”.

La riflessione intorno alla spiritualità non si lega necessariamente alla religiosità e al senso del religioso, ma non si può non notare che in qualche modo ne faccia parte, considerando come oggi le religioni fatichino a reggere l’impatto del rapido mutamento dei tempi.

In effetti oggetti di profonda valenza cultuale e rilevante importanza spirituale come le immagini sacre sono ora sostituiti dal mondo delle cose che la rivoluzione industriale ci ha posto dinnanzi. Se avere un santino in tasca o un’icona liturgica sul comodino poteva propiziare la preghiera e un momento di riflessiva solitudine che introduceva alle forme della spiritualità, oggi sono gli oggetti del momento ad essere, assieme alla chimica dei farmaci, di supporto al nostro sé per conformare e confermare la nostra autenticità nel mondo. Il discorso potrebbe proseguire con l’esempio delle automobili che hanno concesso la libertà di andare ovunque a condizione che società e città si organizzino per consentirne l’utilizzo. La diretta conseguenza è l’obbligatorietà d’averne una, così come di avere computer e smartphone. Ma ciò obbliga sempre che la società si conformi alle esigenze degli oggetti più che delle persone. Dagli oggetti le persone traggono vantaggi, ma rischiano di essere dimenticate e di dimenticarsi, ammaliate, accecate come falene da status, carriera, denaro, belle auto, televisori sempre più grandi, drogate di intrattenimento, regolate da terapia e prozac.

Siamo consapevoli invece che conversazioni del tutto estemporanee ci diano idea dei problemi vissuti dall’uno o dall’altro? Che parlare dà sollievo anche se chi ascolta non ha soluzioni da proporre o interpretazioni da fornire? Che il più delle volte il dialogo o il semplice conversare si può concludere senza l’ambizione di formulare analisi, diagnosi, tentativi di far luce sui complessi del passato, ma solo con qualche parola di incoraggiamento o consiglio? Come facevano i “profeti” un tempo che si proiettavano verso l’avvenire di tutti e le opportunità di ciascuno, senza cercare troppo le cause del male nel passato dell’individuo.

Come accennato all’inizio, il problema che vivono le città è nel vertiginoso cambiamento di scala che la globalizzazione sta imponendo. Un cambiamento di dimensioni senza precedenti. Trovo ancora interessanti le considerazioni di Augé, che individua i prodromi di quanto sta accadendo nei fatti che svilupparono la colonizzazione africana con il suo carattere brutale e improvviso e la destrutturazione delle società tribali che ne è derivata. Secondo Augé la colonizzazione annunciava la globalizzazione. Di certo l’accelerazione della storia riguarda anche gli individui e si estende ai cortocircuiti delle relazioni sociali e al rapporto con sé stessi. Cambiamenti radicali che fano vivere la sensazione di essere colonizzati, senza sapere da chi o da cosa. Ciascuno è coinvolto in questi cambiamenti in misura differente, ma tutti ne risentono. Parlare di spiritualità e definirne il ruolo dovrà passare indenne attraverso pericolose considerazioni macrosociologiche o transtoriche e ridare senso alla presenza dell’uomo al centro di un cambiamento di dimensioni senza precedenti. In questo ci potrà essere guida il pensiero scientifico che promuove l’ipotesi come metodo e si basa sui principi di pensare in correlazione agli scopi e comprendere che l’uomo, nella sua tripla dimensione, individuale, culturale e generale, è la sola priorità.


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